L’Orchestra.26/Le nove bandiere di Kobarid

In un secolo, nove bandiere hanno sventolato sulle rocce dell’Isonzo. Nove bandiere piantate sulle pietre, testimoni della follia del ‘900. Testimoni della sventatezza oscena delle frontiere. Appartengo alla fine di un secolo che ha conosciuto i passaporti anche per muoversi in Europa: nei miei anni di ragazzo ci voleva Interrail e passaporto per andare a Parigi o a Barcellona. Bisognava varcare check-point per Alexander Platz. I poliziotti di Praga fermavano gli ‘stranieri’ solo per il gusto di un misera corruzione. E cortine di ferro da saltare solo per andare sull’altra sponda dell’Adriatico. Prima di oggi, non ero mai stato a Kobarid, mai a Caporetto. Il suo nome era solo un ricordo della scuola, qualcosa di sbiadito, di lontano. Non ho avuto narratori capaci di farmi sapere. E così oggi, all’improvviso, mi imbatto in una memoria a me sconosciuta. Le agenzie del marketing promozionale sentenziano: ‘La Prima Guerra Mondiale non interessa’. Dovrebbero venire qui per capire. Sono grato all’Orchestra che mi ha portato fino in queste valli, fino alla limpida bellezza dell’Isonzo, al colore verde smeraldo delle sue acque, alle rocce bianchissime: è davvero passata una guerra per queste montagne? E’ davvero accaduto appena cento anni fa? Davvero imperi, repubbliche, monarchie hanno mandato uomini a morire pur di sventolare la loro bandiera su queste pietre? Come è stato possibile?
Cento anni dopo quella carneficina, i confini dei paesi ridisegnati da chi vinse quella guerra, sono tornati a essere polvere. Chi si spartì le spoglie dei grandi imperi non aveva il dono della preveggenza, era gente mediocre, avida solo di potere, pensava di poter riscrivere, a suon di morti, la storia e la geografia: ora sappiamo che, come tutti i guerrieri, furono stolti. Fiumi, montagne, frontiere secolari riemergono. Popoli cancellati rinascono. Armeni, curdi, catalani, gente balcanica, ucraini. Diciassette milioni di morti, venti milioni di feriti e mutilati per niente. Per niente, per niente. Non è possibile rimuovere le differenze…Riusciremo, come la musica, come questa Orchestra, a convivere nella stessa terra? O, semplicemente, alzeremo di nuovo mura, invece di costruire piazze?
L’Orchestra è metafora potente. Questa Orchestra è ben più che metafora: ha unito diversità senza negarle, non ha cercato omologazioni, ha creato un’alleanza, una possibilità di convivenza, un modo di stare assieme senza rinnegare niente della propria identità. Da tempo ho bandito dal mio vocabolari parole che ho amato per decenni. ‘Identità’ e ‘radici’ avevano perduto da tempo il loro significato, erano state tradite. Oggi, di fronte a questi ragazzi, per la durata di un viaggio, ne ho intravisto la grande bellezza. E la grande forza.
La musica può impedire il ripetersi di un dramma? Certamente può dare una mano. ‘La musica arriva fino al bambino che è ancora in tutti noi’, sento dire appena si spegne nell’aria l’ultima nota. L’Europa è riuscita per settanta anni ad evitare una guerra. A noi, nati dopo che i cannoni avevano smesso di sparare, la pace appariva normale. I massacri balcanici, venti anni fa, ci hanno risvegliato di soprassalto e ci hanno bruscamente avvertito: può accadere di nuovo. Anche se i ragazzi serbi tifano, con il cuore, per la Croazia alla finale dei mondiali, può accadere di nuovo. Per questo i tamburi di pace rullano, come un esorcismo potente, nella piazza di Kobarid, la piazza di Caporetto. Oggi questo luogo mi appare un paese alpino lindo e curato. Affollato di ciclisti e trekkers, di turisti e buona birra, e un ufficio postale aperto alle cinque del pomeriggio. Di nuovo: come è stato possibile? Solo cento anni. I ragazzi, a sera, firmano un impegno per la pace. Masha a notte dice: ‘Prendetelo sul serio, il futuro è vostro’.
Jože Šerbec è stato direttore del Kobariški muzej, il museo di Caporetto, per un quarto di secolo. Leggo che era un giurista, poi scelse di venire a vivere in queste valli e fu fra fondatori di questo museo. Oggi è un uomo di sessanta e passa anni dal fisico di chi è abituato alla montagna: ci fa camminare lungo le sponde dell’Isonzo per raggiungere il luogo del pranzo. Lui in testa, noi già con il fiatone dopo tre metri di salita. I suoi racconti attorno alla guerra sono avvolgenti. Se solo avessi avuto lui come narratore negli anni della mia adolescenza. Al museo mi aggrappo allo sguardo di Ernest Hemingway, ma invece dovrei guardare negli occhi i soldati che pregano prima della battaglia: sanno benissimo che non sopravviveranno alla prossima battaglia. Voi come vi sentireste? Ci sono le croci, le mutilazioni, i corpi. C’è Ungaretti: ‘Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie’, scritta nel luglio del 1918. Ancora una volta: cento anni fa. E ancora non vi è stato un ‘addio alle armi’.
Ho qualche pensiero banale, ma ho promesso a me stesso di non usare trucchi, né reticenze in questo scrivere (non prendete sul serio questa promessa, le reticenze ci sono sempre): penso ai ragazzi che questa mattina si lamentavano della colazione di un ostello sloveno, delle federe che irritavano, delle zanzare e di un scarafaggio che se ne andava in giro in una camera. Bene, cancello un pensiero demagogico, solo che mi passa per la testa, ronza per un po’, tutto qui.
Forse non vogliamo ammetterlo, ma qualcosa si pianta nella nostra anima dopo una giornata a Kobarid. Almeno, la domanda: come è stato possibile? Rimane irrisolta: noi saremmo andati a combattere? Andrea, contadino lucano, andrebbe a combattere se oggi lo chiamassero a sparare e a morire? Davvero saremo capaci di non ripeterci? L’Europa sta scherzando con il fuoco.
Paolo cerca di darmi speranze: ‘Forse fu proprio nelle trincee della guerra, mentre si uccidevano l’uno con l’altro, che uomini con divise diverse impararono a conoscersi: sentivano gli odori dei propri ranci, sentivano il proprio odore. Forse allora cominciarono a scoprirsi simili’.
La pioggia capisce che questa notte è importante e allora balla sulle montagne, ma lascia in pace la valle di Kobarid. I ragazzi possono suonare. E questa volta non ascolto, guardo. Guardo i volti di chi ascolta e cerco segni. E questa volta, Paolo non ha bisogno di invitare nessuno ad alzarsi: gli uomini del potere (presidenti, sindaci, assessori, schierati in prima fila con i loro abiti scuri e le cravatte), la gente di Kobarid, i turisti e i passanti, si alzano in piedi per l’Inno alla Gioia.
E mentre i ragazzi, dopo lo spettacolo, si incamminano verso la cena in un corteo allegro, da un ristorante parte un coro di applausi.
Appare un uomo che ci ha seguito: da Norcia fino a qui. L’Orchestra è un contagio.