Rituale etiopico.10/Nostalgia di As Bole

As Bole, il villaggio, il nostro campo

 Attenzione, questo è l’ultimo giorno. E io non riesco ad abbandonare niente dietro di me. Non voglio andare, non voglio rimanere. Immagino la mia vita qui. Non sopporto gli addii, non sono africano, vivo di passato, smarrisco il presente, non c’è futuro. Poi penso: ‘In caso ci fosse…’. Vorrei essere capace di non voltarmi indietro. Troppi anni. Attenzione: io non so se rivedrò questo posto. Non amo più i viaggi. Forse non li ho mai amati. Lascio troppo dietro a me, mi spezza il cuore l’addio continuo dell’andare. Sono lento, ho bisogno di tempo. Non faccio altro che piangere, senza avere un luogo dove tornare. Allora, penso: qui vorrei tornare, sentire la sabbia, mettere i piedi nel fiume, collezionare una memoria.

 

Il fuoco, il fumo e la luce

In questi anni ad As Bole è accaduto questo:

As Bole, ‘la Grande Pietra Rossa’ (non ricordo chi mi disse che questo era il significato di queste due parole), mi apparve all’improvviso mille anni fa. Camminavamo da ore e ore. Eravamo partiti a notte fonda. Le carovane erano già scomparse, volevamo seguirle e loro se ne erano andate. Solo il nostro cammello ci stava aspettando. Volevamo raggiungere la Piana del Sale, ma non avevamo alcuna idea di dove fosse. Chiedevo alla nostra guida, immaginate la risposta: ‘E’ vicina’. Trentasei chilometri più tardi, canyon di rocce rossastre, centinaia di dromedari, stanchezza irrimediabile, piedi bagnati dalle acque perenni del Saba River, svoltammo un ultimo roccione e c’era un villaggio, capanne tondeggianti, file di pietre e cespugli spinosi come confini, file di ragazzetti che ci guardavano con occhi sgranati. Era davvero As Bole, la Grande Pietra Rossa. Mi lasciai andare su una stuoia, deciso a non alzarmi mai più. Eravamo arrivati in Dancalia. Non ci potevo credere. As Bole divenne un luogo a me caro. Un vallone bellissimo.

Le ragazze portano l’acqua

La tempesta di sabbia

Tornammo l’anno dopo. E una donna ci mise sull’avviso. Nei mesi della nostra primavera, avremmo potuto regolare i nostri orologi sul vento. I ragazzi smisero di giocare, la gente del villaggio era scomparsa, aspettava, silenzio assoluto per un frammento di tempo. La prima folata di vento fu rabbiosa, violenta, improvvisa. Lo schiaffo di un’onda. Una corrente d’aria veloce come un bolide, un urto inatteso. Non ci dette nemmeno il tempo di trovare un riparo. Volarono ciottoli, plastiche, pietre, rami spinosi. La sabbia smerigliò la nostra pelle. Il vento come un urlo, come una nascita. Oppure l’annuncio di qualcosa che finiva. Vento termico. ‘Durerà due ore’, riuscii a capire mentre mi rifugiavo dietro la macchina, un telo sugli occhi, per niente al mondo mi sarei perso una vera tempesta. La volevo, la volevo per me, per la mia pelle. Era il saluto della Dancalia: ‘Mostrami tutta la tua potenza’. Sentii la sabbia roteare attorno a me.

 

Il Saba River

‘Salite lassù’

As Bole, in realtà, è un luogo dolcissimo. Una pista, due tornanti, sale fino alla collina di pietra e polvere che domina questa piccola valle. Io armeggio attorno alle tende, ma consiglio a tutti, ogni volta: ‘Salite lassù’ e indico con il braccio il cammino. A volte i miei amici sono dubbiosi, poi qualcuno si mette in movimento e allora salgono tutti. E rimangono ‘lassù’, fino a quando non fa scuro. E’ un incanto il paesaggio della frontiera fra pietra e sale, fra montagna e piana. La mattina dopo ho visto Alessandro incamminarsi prima dell’alba. Con un tappetino sotto braccio. Salì a fare yoga ‘lassù’, a salutare il sole. Cosa penseranno gli afar?

Il pane dei cammellieri

La luna danza

Negli ultimi anni, ho viaggiato per la Dancalia solo con la luna piena. Pretendevo che fosse compagna, sorella, amica, avevo sempre con me Leopardi. Dai, perdonatemi: Che fai tu, luna, in ciel?/ dimmi, che fai,/Silenziosa luna?/Sorgi la sera, e vai,/Contemplando i deserti; indi ti posi./Ancor non sei tu paga/Di riandare i sempiterni calli? Oramai la conosco: ad As Bole ha cominciato il suo viaggio a ritroso, appare dopo ore che la notte ci ha avvolto, appare dietro il confine delle montagne, una luce lenta, spenge le stelle e poi spunta fuori, scivolando su un dosso, come se accarezzasse una schiena. Io l’aspetto. ‘Ancora non sei paga…?’ Dai, scusatemi, ma dovreste essere qui, qui dove ho scoperto che non posso essere poeta: non trovo le parole e allora ho il libretto dalla copertina azzurra con un segnalibro a indicarmi la pagina. ‘Contemplando i deserti…’. Sei stato qua?

Il capovillaggio

Il canto dei carovanieri

As Bole conosce la fatica degli uomini. E’ il luogo che sa del loro riposo e della loro stanchezza. Qui le carovane si fermavano prima di affrontare la Piana del Sale. Al ritorno, passavano un’altra notte alla Grande Pietra Rossa. Il cielo aveva il chiarore dell’ultima notte. L’oscurità non era il buio, disegnava ombre. Le rocce del canyon erano animate, mandavano riflessi. Era una danza lenta della pietra. Mi svegliò un canto, qualcosa che entrò nel mio sonno. Mi svegliò un sottofondo insistente. Scesi goffamente dal letto, mi ero rifugiato in una tenda. Cercai i sandali. Non li trovai. Camminai a piedi nudi. La capanne del villaggio sembravano acconsentire la mia intrusione. Mi indicarono la strada. Mi affacciai all balcone di terra e polvere che dava sul fiume. E li vidi: gli uomini e i loro cammelli. Che ora era della notte? ‘Sentinella, a che punto è la notte?’. Era un sogno? Non era reale. Le montagne, il brillio del fiume, il passo degli uomini non erano reali. Io non ero reale. Andai a svegliare Daniela. Io, da solo, non potevo credere a quanto stavo vedendo. Le carovane stavano scivolando lungo la sponda del Saba. Non avrebbe dovuto esserci spazio per la poesia. Era fatica nella notte. Ma quegli uomini stavano cantando. Cantavano alla luna, cantavano con leggerezza. La loro voce correva per la valle, si perdeva nel canyon. Era un eco, un fruscio che accompagnava il cammino. Questa era la Bibbia. Il primo Corano. Questo era l’Antico. Uomini di altre ere avevano trovato un interstizio nel quale sopravvivere. Il canyon è una frattura nel tempo. I cammellieri cantavano e le loro voci, arrochite dalla stanchezza, erano una sinfonia della natura.

Non si fermarono, il loro canto si perse dietro la curva del canyon. Ascoltai l’ultimo scalpiccio, come finale appena sussurato. Noi, viaggiatori dell’inutile, tornammo a dormire, domani avremmo seguito le loro tracce. Ho i brividi di quella notte mentre scrivo questo frammento

Le ore di As Bole

Le lacrime

Quella volta non fui io a piangere. Ma G. I nostri amici erano saliti sulla collina. Io cercavo di riordinare la mia tenda. G. era seduta su una pietra. Guardava il fiume, guardava la valle. Era sola. Mi avvicinai. E vidi le sue lacrime. Mi sedetti accanto a lei, per terra, credo. Non dissi una parola. Lei disse: ‘E’ così bello’.

Alì delle bottiglie. Le raccoglieva lungo il corso del Saba River, abbandonate da noi

Il letto aereo

Una volta ci offrirono un grande letto collettivo per passare la notte. Era il letto delle donne, un baldacchino aereo, a un metro da terra, messo di fronte alla capanna più grande. Fatuma, Anbia e Zara, ragazze giovanissime, dal corpo allungato e i denti come una luce, ce lo mostrarono con gioia. Ci spiegarono come salirci sopra senza cadere, ci dissero che avremmo avuto un buon sonno. Poi si accucciarono su una stuoia a guardarci. Attorno i movimenti lenti del villaggio, non c’era una sola luce, non una torcia, non un fuoco. Si sentivano voci di una chiacchiera. Il baldacchino cigolava, il sonno fu immediato. Nella notte, le risate delle ragazze.

Ho provato a guidare una carovane (per trecento metri)

La nonna di Dini

Tutte le volte che passo da As Bole, vado a salutare la nonna di Dini, nostro ‘figlio’ afar. Una volta mi portò da lei. Era già vecchissima. O, almeno, a me appariva tale. Già allora si alzava a fatica. Con il tempo, stava distesa su una stuoia. Una ragazzina si prendeva cura di lei. Aveva qualcosa di diverso, la nonna di Dini: portava grandi occhiali, montatura pesante, i suoi occhi avevano perduto forza e, non ho idea di come fecero, la famiglia riuscì a procurarsi queste lenti. E’ la sola afar che io abbia visto con gli occhiali. Al solito, stavo un po’ lì, bastava che dicessi ‘Dini’ e i ragazzini mi portavano da lei. Mi sedevo, le sfioravo la mano, lasciavo un po’ di soldi. Mi alzano, me ne andavo. Sentivo i suoi occhi con le lenti dietro a me. Quest’anno ho chiesto di lei, ho sempre il timore che qualcuno mi dica: ‘E’ morta’. No, si affrettano: ‘Ha cambiato villaggio’. Ha risalito il canyon. Come avranno fatto a portarla? I nomadi-sedentari della Dancalia si spostano. Non vedrò mai più la nonna di Dini. E ora mi rendo conto che non ne ricordo il nome.

 

C’è campo ad As Bole

C’è ‘campo’ ad As Bole

Una volta costruirono una strana scultura davanti alla capanna-cucina dii As Bole. Era un incastro di legni. Rami che provavano a diventare monumento. Vidi con stupore che Alì vi saliva sopra: tese il braccio verso il cielo e cercò di afferrare qualcosa. Aveva il suo cellulare cinese in mano. Lo alzò nella speranza di catturare un refolo di linea. Per gli afar è importante parlare con la famiglia, con i parenti, con gli amici. La modernità per loro ha avuto il dono della telefonia mobile. La strana scultura stava a dire che lì, quasi al centro del villaggio, ‘c’è campo’. C’è ‘campo’ in mezzo agli ultimi contrafforti dell’altopiano, là dove la Piana del Sale comincia e le acque del Saba regalano un’ultima fertilità. Questa è tecnologia di Dancalia. I cinesi assemblano cellulare etiopici Thecno a Bahir Dar. Un tempo ci volevano mille birr (costavano meno di un cammello) per permettersi un Nokia.

Alì, gli occhi rossi, il dente d’oro. Dove sarai?

Il contadino delle palme

Ad As Bole, un anno, ho conosciuto un contadino. Il solo contadino che abbia mai visto in questo angolo di Dancalia. Gli afar non coltivano la terra. Sono mandriani e pastori. Non amano seminare, non vogliono star chini su una piantina, non amano raccogliere. Alì era solo. Con la sua numerosa famiglia: dodici figli. Il più piccolo, allora, aveva tre anni, il più grande 22. Una sola moglie. Guardavo con curiosità il suo piccolo campo, sorpreso da quel verde intenso in una terra che non conosce questo colore. Sotto le palme, Alì coltivava un rettangolo di sorgo e piccoli orti. Aveva due vacche. Una volta gli comprai un cocomero. Era buonissimo.

Alì aveva un dento d’oro. Se lo fece mettere quando era andato a vivere in Arabia Saudita. Allora fuggiva dalle guerre dell’Etiopia. Accadeva molti anni fa. Tornò alle sue campagne ai margini di un deserto dove non cresce nemmeno un filo d’erba. Suo nonno era contadino. Come suo padre. Mi disse che quel terreno era stato donato alla sua famiglia del negus Hailè Selassiè. Lui non si chiedeva le ragioni del suo destino. Zappava, seminava, raccoglieva. Quando lo conobbi era felice: si stava costruendo la strada per Hamed Ela e lui vendeva alle compagnie le uniche verdure fresche di questa terra.

Un anno sono arrivato ad As Bole e lui non c’era più. Le palme proteggono ancora quel frammento di terra. Ma nessuno semina più verdure. Mi dicono che quel terreno è stato affittato a un’agenzia di Addis Abeba per farci i campi per i suoi turisti.

La donna che lava i nostri lenzuoli

La preghiera

La moschea è vicina alla nostra capanna-cucina. Arriviamo sempre in tempo per la preghiera. Il muezzin si mette sulla porta della costruzione in legni contorti e grida il suo canto graffiato: ‘La illah illlah/Mohamed razul Allah’. Lentamente un pugno di uomini si avvicina, si tolgono le ciabatte nella radura di fronte alla moschea, si mettono in fila, si allineano, il muezzin si volta verso oriente e comincia la litania della preghiera. Ci si piega, inchino sacro, ci si inginocchia, la fronte tocca la terra. Mi avvicino anche io, sto dieci passi indietro. Non credo che se ne accorgano, ma prego con loro.

Il negozio di As Bole

Non è cambiato nulla ad As Bole. Le ragazze ora hanno figli piccoli, la nonna non c’è più, un cartello scritto in amharico dà il benvenuto ai turisti, non c’è la paglia per i dromedari. Di cosa vivrà la gente del villaggio, senza le carovane? Solo con i turisti? E’ stata costruita un’altra capanna per altri gruppi, non siamo più i soli a venire qui. Conto le solite trentasei capanne, c’è una costruzione in  muratura, gli uomini sono lì davanti a chiacchierare la mattina. Passo a salutarli. Porgo la mano destra, la sorreggo con la sinistra, poi la mano sul cuore.

 

 

 

print

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.