Dancalia Rewind.14/Periferie del vulcano

Abdellali, il ‘villaggio di Abdellah’, è sorto sulla sponda del maremoto di lava. Lo hanno costruito proprio là dove una colata dell’Erta Ale si è arenata nella sabbia della piana di Dodom. Le capanne spuntano dalle rocce nere. Sono cupole gialle con una sola apertura. Il fumo passa attraverso le stuoie. Una donna lancia sassi dietro a una capra che non vuole allontanarsi. La nostra nuova guida vive qui, fa fermare la macchina, scende, scompare in una capanna e ne riesce con una borsa da ginnastica.

Nella loro discesa lenta e inesorabile le colate di lava avevano la presunzione di coprire tutta la terra. Non hanno mai ben capito perché a un certo punto si sono arrestate. Si sono pietrificate. Qualcuno, alle loro spalle, aveva tagliato i fili del loro incedere. Gli uomini, con altrettanta lentezza e determinazione, hanno sfidato quelle rocce così ostili. Hanno cominciato a vivere sopra di loro. Sono venuti qui per erigere i loro villaggi. Hanno livellato piccoli spazi. Lo hanno fatto a mani nude e vi hanno costruito, portando i rami da lontano, capanne rotonde coperte di stuoie. Il vento, inutilmente, ha cercato di abbatterle. Inutilmente la terra ha dato scossoni per togliersi di dosso quegli intrusi. Gli uomini sono rimasti ad Abdellali. Ed Abdellah, il capostipite, e sua moglie hanno messo al mondo figli, generato eredi, creato una stirpe. Hanno scavato pozzi, vissuto là dove appariva impossibile. Aveva un volto scavato e guance ossute, Abdellah, ma era fiero della sua tenacia. I suoi pronipoti sanno allevare vacche e mungere capre, crescere cammelli e resistere, ancor oggi, al vento maligno. Sanno maneggiare coltelli e fucili, bastoni e cellulari. Guidano i turisti verso il semplice ignoto dell’Erta Ale. La giovane donna ha deciso che siamo degli scocciatori: minaccia di risparmiare le sue capre e di tirar sassi verso noi che stiamo lì, come imbecilli, con le macchine fotografiche in mano.

Pochi anni fa tutti coloro che volevano salire sull’Erta Ale arrivavano fino ad Abdellali. Qui si tirava su il campo e si aspettavano i dromedari. Poi gli afar hanno deciso di rendere più facile la vita ai turisti (opera di promozione: se si cammina meno, verrà più gente) e hanno ruspato una pista rompibalestre fino a dove si poteva. Non so chi sia stato il geometra, ma passare per qui è un aspro zigzag fra la lava. Lavoro immane. Mi sarebbe piaciuto ascoltare le riunioni dei capofamiglia del clan di Karswat mentre dibattevano su questa strada.

Gli intransigenti della Dancalia (o si soffre o un viaggio non è tale), quando lo hanno saputo, hanno deciso che, dopo l’apertura di questa pista, l’Erta Ale non valeva più niente. Il nuovo tratturo conduce fin sotto le sue pendici. La pista è un disastro: balzelliamo per un buon tempo. Scartiamo la fossa scavata dall’esplosione di una mina che, due anni prima, aveva fatto saltare una macchina lungo questa strada. ‘Banditi venuti dall’Eritrea’, spiegano gli afar di Karswat. Alla fine si arriva a ‘Due alberi’: un tempo queste due acacie segnavano il capolinea di questa strada. Negli anni le due acacie hanno figliato: oggi gli alberi sono quattro. La gente del posto conosce questo luogo come Askomi Bahari, ‘la sponda del vulcano rosso’.

I rifiuti sono un altro fenomeno dei tempi del nuovo millennio in Dancalia. ‘Due alberi’ è il parcheggio dei fuoristrada. Hanno costruito rifugi di sassi per proteggere i turisti in caso di vento. Scatolette, plastiche fuse, pezzi di macchina marciti, copertoni, vestiti laceri spuntano fra la sabbia nerastra, la coltre della cenere e gli scogli di lava. Nessuno apre bocca. Nessun commento banale. Siamo un po’ delusi. Ci sono fuoristrada parcheggiati. Vuol dire che sul vulcano ci sono altri turisti. Mai illudersi di essere soli e di essere primi a queste latitudini. Arrivano i cammelli, Ghlisa è stato di parola. Mai incamminarsi verso la vetta dell’Erta Ale senza aver visto prima partire la carovana con i bagagli. I ragazzi che guidano i cammelli hanno fretta. I loro muscoli sono tirati, le gambe magrissime. Legano le zampe degli animali che saltellando se ne vanno a brucare i cespugli d’erba che crescono fra la lava. Noi ceniamo a lume di candela, loro accendono il fuoco e si accontentano di tè e borgutta, pane duro ammorbidito nel liquido della tazza. Guardo verso il vulcano, ma l’Erta Ale non dà soddisfazioni. Da qui si presenta come la pelle di un elefante disteso per terra. Non ha sbalzi, non ha fuochi di artificio. Non fa caldo. Il sole, sì, tramonta con tutti i suoi effetti speciali (apoteosi di colori, rossa, violetto, tinte di un incendio) in un cielo velato. Dal lato opposto la luna sgomita con l’orizzonte dei vulcani pur di sorgere. Perfino la lava sembra essere diventata diafana sotto il suo riflesso vibrante. Mi rendo che non c’è alcuna gloria in questo momento. Guardo i cammellieri caricare i nostri bagagli, ascolto con finta attenzione le ultime raccomandazioni di Asfaw, guardo i miei piedi lasciare impronte in un sentiero di cenere. Tempo di partire. Sono passate da poco le otto di sera. Non contare i passi. Stiamo salendo sull’Erta Ale.

Il tempo degli afar, la luna e la Spica della Vergine/7
Camminare fra cenere e lava non è diverso da andarsene a piedi per sentieri fra i boschi. I primi passi sono quelli dei pensieri. Poi verranno dimenticati. Dopo un po’ che si cammina si lascia che le ore scorrano senza chiedersi alcunché. La salita è leggera, quasi pianeggiante, ma insistente, non si può essere sorpresi dalla luna: tutto era stato calcolato per essere qui in una notte di luna piena. Come dicono gli afar? Taban ké konoy alsà, la luna del Quindici. Non chiedetemi perché, ho cercato di capirlo, mi sono fatto spiegare e rispiegare, ma non saprei ridirvelo.
La luna ha sempre avvolto l’universo afar. Come in ogni luogo della Terra, ha emozionato gli uomini. La luna è stata adorata dalla gente di questi deserti. Ora sta dando sfoggio della sua maturità. Biloo è l’annuncio della speranza, è la nuova luna, la piccola falce che fa sapere che è arrivato al ciclo mensile delle notti illuminate. ‘Biloo, biloo bilok tayse bilo koo abay…’. ‘Luna nuova, luna nuova, che tu sia la migliore delle nuove lune…

Noi, abitanti delle città e delle terre della luce artificiale, abbiamo semplificato il tempo. Invece questi nomadi straccioni e assetati hanno elaborato un sofisticato algoritmo dei giorni, dei mesi e delle costellazioni, comprensibile solo a chi ha studiato a fondo astronomia e fisica. Un astronomo, con pazienza, mi chiarisce: ‘Il cielo regalava una speranza agli uomini. Non avevano altro. La vita di un pastore nomade era breve, insicura, violenta. Non c’erano luci sulla Terra, le stelle apparivano meravigliose. Ci mettevi secoli, ma alla fine eri certo che i movimenti di quegli astri divini era regolare, continuo, infinito. Allora cercavi nelle stelle quelle sicurezze che il mondo terreno non riusciva a darti’. Nessun afar avrebbe intrapreso alcunché senza interrogare gli hutuukabeya, gli astrologi, ‘coloro che sorvegliano le stelle’.

Agli afar (per fortuna?) è mancato un Marcel Griaule (che pure è venuto anche da queste parti, limitandosi però alla gente dell’altopiano), l’antropologo francese che ha reso famosi i Dogon del Mali. Altrimenti qui ci sarebbe un viavai ancor più intenso che sulla falesia di Bandiagara. La cosmogonia afar vale quella dei dogon: loro hanno Sirio B e qui si adora la Spica della Vergine.
Mi muovo a caso nel calendario afar: si chiama alsi-lowo, computo dei giorni. So che prima della conversione all’Islam, gli afar non si complicavano la vita con il calcolo delle settimane. In fondo facevano i pastori, per loro contava solo karma, la pioggia. Ogni anno aspettavano trepidando la stagione in cui i monsoni si spingevano fin al loro deserto (quanto poco lo facevano). Sorprende, però, che la memoria del passato sia legata più alle grandi sofferenze che non agli anni generosi: nel 1808 ‘si fu costretti a mangiare perfino i gechi’, il 1886 fu l’anno della tempesta di sabbia (ce ne sono stati diversi), quasi quarant’anni prima erano stati i mesi dell’esodo verso Oriente per sfuggire alla carestia. Altra migrazione nel 1953, l’anno nel quale sono nato: è ricordato come quello della ‘pentola in spalla’. Un’altra fuga dalla fame.

Ci sono due stagioni nell’anno afar: i mesi freschi che si chiamano gilal e quelli caldi conosciuti come hagay. Se state pensando di seguire le nostre tracce tenetene conto: la stagione meno opprimente va dalla metà di ottobre alle metà di aprile. Per il resto, il caldo diventa un sudario. Mai provato, confesso.
Altra precisazione: le piccole piogge invernali cadono in due periodi, kudò dalla metà di ottobre a novembre, e dadà, dalla metà di dicembre alla fine di febbraio.

Mi incuriosisco: nei secoli più lontani, il giorno degli afar cominciava a mezzogiorno. Mi distraggo: ora circolano troppi calendari in queste terre. Quello dei cristiani d’Etiopia (segue le regole giuliane), quello gregoriano degli europei, quello musulmano che comincia dall’Egira di Maometto e, infine, quello della tradizione che è un incrocio di tempo stellare e lunare. Mi sembra di capire che il mese tradizionale comincia con il primo spicchio di luna (‘bianco del mese’, almeno fino al 15: ora capisco la luna piena come giorno del Quindici) e finisce con la luna che scompare (‘rosso del mese, la seconda quindicina di giorni). Gli afar sono astronomi provetti: guardano verso oriente, aspettano l’alba giusta e sorvegliano la stella che sorge con il sole. Stella del mattino, roba da Peter Pan. O da antiche civiltà egizie e caldee. Non so bene come facciano, ma l’alzarsi eliaco della Spica della Vergine (qui è chiamata Dirri), la stella più luminosa della sua costellazione (la quindicesima stella più lucente del firmamento, distante 262 anni luce dalla Terra), è evento decisivo per il calendario degli afar. Insomma, l’anno di queste genti (ma Dader Eto lo sa? Devo chiederglielo) comincia quando la luna e Dirri vanno in congiunzione e la stella si alza con l’alba. Questo vuol dire che l’anno afar comincia quasi sempre a metà di ottobre. Guardate che questa è la regola: le eccezioni mi appaiono senza fine, cosa succede, infatti, se l’apparizione della stella è incerta e più ancora se non si è sicuri della congiunzione fra Dirri e la luna? Senza contare che i calendari lunari hanno bisogno di recuperare tempo una volta ogni tanto.
Succede che si ferma tutto, i saggi si riuniscono, l’anno non comincia, qualsiasi lavoro è sospeso, i creditori non possono pretendere il pagamento di quanto loro dovuto. Insomma, questa società rurale, pastorale e nomade era appesa ai moti astrali. E se la Spica della Vergine aveva sorpassato la luna e non se ne fossero accorti? Niente panico: i saggi decidevano che l’anno era cominciato e tutto poteva tranquillamente rimettersi in movimento senza che nessuno ci desse peso. Leggo che nel 1973, l’anno attese più di un mese prima di essere dichiarato cominciato. C’è poi da tenere i conti: chi è il folle che ha calcolato che la congiunzione Luna-Dirri, ogni mese, ha uno scarto di due giorni e una frazione di 1 a 20893 di giorno? Ripeto, senza aver capito veramente: dopo il passaggio dei giorni della Spica, il calendario è affidato alla costellazione dell’Ariete, delle Pleiadi e di Orione.
Il tempo afar è circolare, si mette in cammino, ma tende a tornare sempre all’istante zero e cioè al suo inizio. In fondo anche noi facciamo così. Il tempo ruota su sé stesso. So che la congiunzione della Pleiadi con l’Ariete avverte che stanno per arrivare i mesi caldi. Mentre la congiunzione Luna-Orione preannuncia, insh’allah, le piogge. La prossima volta che vengo qui mi porto dietro un telescopio e mi faccio spiegare meglio.

Cerco di immaginarmi Didier Morin. Non ci riesco. Vi spiego: ho cercato il suo libro perché aveva un titolo al quale mi sono aggrappato, si chiama ‘Dictionnaire historique afar 1288-1982’. E’ lui, studioso francese, erudito pignolo, afar di adozione, gibutino per francofonia ad avermi donato quello che questo popolo gli aveva regalato . Non ho trovato una sua foto, so che è nato nel 1947 e una volta tanto internet non è stato generoso nel darmi sue notizie. Non so nemmeno se ho voglia di incontrarlo. So che, nei prossimi viaggi in Dancalia, mi porterò dietro il suo libro troppo dotto. Lo immagino, nel caldo oppressivo di Gibuti, chiuso in una stanza in penombra. Non è tipo da amare l’aria condizionata, Didier. Sa che la lingua afar ha bisogno dell’afa torrida di questa terra per emettere i suoi suoni. Non si impara a declinare i verbi della lingua di questa gente senza farsi entrare nelle ossa il clima insopportabile dove vivono. So, però, che le pale del ventilatore girano sulla sua testa: Didier sta lì, nella semioscurità, chino su carte e fogli di quaderno. Sfoglia i manoscritti di vecchi e straordinari sceicchi. E compila il suo dizionario come un amanuense benedettino. Un piccolo gruppo di nomadi aspettano fuori della sua porta. Cambio idea, Didier. Ti cercherò. Ti troverò.
Leggo Morin. Lui ha tradotto i nomi dei mesi. Chissà se anche i nostri mesi hanno questi significati. Se così fosse, nessuno ce lo ha mai detto. Sentite: Inanab, il primo mese, sta per ‘madre molto anziana’: è la metà di ottobre e credo gli afar vogliano avvisarci che la madre delle stelle è alta nel cielo. Inkibartà,è il mese che va dal nostro novembre a dicembre: è la ‘piccola pioggia di una notte’. Se Dio vuole, in questo mese cade una lieve pioggia capace di far spuntare erba fresca fra le lave. Con Yengelen, siamo già a gennaio: in queste settimane ‘si sono incontrate’ due stagioni di piogge. Capita raramente, purtroppo. Durante Abdoma le piogge scompaiono. Mi piace la versione che vuole questo mese anche come Hada-h àlsa: ‘il mese dell’albero’. E’ vero: alla vigilia di marzo fioriscono e’eb e maka’ar, due belle acacie. A Là’an, invece, il sole comincia a soffocare uomini e bestie: ‘diventa caldo’. In agosto arriva Diteli, ‘mese dell’ombra’, dicono che le erbe, sazie delle piogge, assumano tinte nerastre. Infine Dimoli, ultimo mese, termina il 15 ottobre e gli occhi piangono. ‘Mese delle lacrime’: per i poeti perché finiscono le piogge, per la gente con senso pratico solo perché in queste settimane si diffonde, abitualmente, una sorta di allergia e gli occhi degli afar si arrossano fino alle lacrime. Ci sono altre versioni, ancora più belle dei mesi (gli afar mica sono tutti uguali): ecco ‘il mese della transumanza’, ‘il mese di Orione e del grande accampamento’ e quello delle ‘due vacche’; il mese delle ‘mandrie che pascolano numerose’ e quello in cui ‘i pascoli diventano verdi’. E quando, all’ora della prima preghiera del mattino, le quattro stelle sono visibili, gli uomini e le donne della Dancalia comprendono che il periodo ‘della Grande Orsa è finito’, si aspetta che la Spica della Vergine torni a sorgere all’alba sull’orizzonte orientale e che cominci la sua ‘lenta marcia’.
Il tabù del dromedario
Contare i mesi del tempo afar ha fatto passare la prima ora della salita. Non so se ho detto tutto giusto. Ora la luna è alta nel cielo. Quando succederà che entri in congiunzione? Osservo le tracce dei cuscinetti delle zampe dei cammelli, si mischiamo con le orme delle ciabatte degli afar. Camminiamo senza bisogno delle torce. Perfino la lava riflette il biancore diffuso del cielo. Non vedo stelle. Troppa luce. Intuisco il culo del cammello cento metri avanti ai miei passi.
Non ci sono muli nei villaggi attorno al vulcano. Strano. Io mi fido ciecamente di Alberto Pollera che, ottanta anni fa, già aveva avvertito che un afar non sarebbe mai salito in groppa a un dromedario. Era, forse lo è ancora (non ho mai visto un afar montarvi sopra), un tabù. Lo sceicco di Beilul, Abdalla Issa, un tipo che coltivava arti magiche e si divertiva a predire, con lo sguardo velato, futuri di sciagure, si spaventò quando Pollera gli disse dell’intenzione della spedizione Franchetti di attraversare la Dancalia in groppa a dromedari. Niente da fare: gli afar del Sud lo consideravano un peccato da punire con la lapidazione. Franchetti avrebbe violato una proibizione divina se avesse insistito nel voler andar in giro per la Dancalia in groppa a un dromedario. Allah voleva che gli uomini andassero a piedi. I razziatori potevano utilizzare muli o cavalli per le loro scorrerie, ma niente dromedari. Certo, Abdalla ben sapeva che altri popoli musulmani non vedevano contraddizioni fra l’andare a cammello e il Corano, ma, qui, nella Dancalia profonda, si era attaccati alle tradizioni e nessuno avrebbe sfidato l’ira di Dio.
Però a Karswat non ci sono muli. E quindi per salire verso la cima del vulcano, bisogna pur ricorrere ai dromedari. Utilizzati come animali da soma. Qualche turista, stanco della salita, prova a salirci sopra, ma è vero che gli animali non sono abituati e che non ci sono selle. Facile scivolare. I cuscinetti delle loro zampe cercano di adattarsi ai ciottoli lavici, ma loro preferirebbero le sabbie del Sahara.
Il dromedario è l’animale più importante dell’Arca di Noè della Dancalia. Solo gli uomini possono accudire le mandrie di questi animali. Mestiere maschile. Da orgoglio virile. Che le donne se ne stiano dietro alle capre e alle pecore. I dromedari sono unità di misura, merce di scambio, status sociale ed economico: la dote della sposa si contratta sul numero e la bellezza di queste bestie e, in dromedari, si calcola l’ammontare delle riparazioni dovute per un’offesa o un crimine.
Il culo dell’animale svanisce nel buio. Non riusciamo a stare dietro al loro passo. Per la salita dell’Erta Ale ci si porta dietro le scorte di fieno. I bagagli stanno appesi a un quadrato di legni incassati sulla sua gobba.