Caminos.10/E’ ora di andare in città…

Josè ha tamburellato per tutto il tempo del mio risveglio. Ricordava il suo, quando si svegliò ‘illuminato di piacere e stupore’ nel vedere ‘la costa brumosa, l’incontro del fiume con l’oceano, il cordone di spume delle onde…’. La mia finestra dà sul fiume Lima, ha una grande finestra, non riesco ad aprire la porta che dà sul terrazzino, ma attraverso vetri nebbiosi vedo il ponte di ferro costruito da Gustave Eiffel. In pratica, l’ingegnere francese ha solo disteso in orizzontale la sua torre parigina…c’è la nebbia, i fari dell’auto sembrano luci di fari in movimento, l’umidità si sta sollevando, c’è un’aria da mistero, sopra questo biancore diffuso c’è un cielo magnifico, lo so. Giornata perfetta per camminare, Josè non dice nulla, ma interrompe il suo ticchettio sul tavolo della mia stanza. Sono io a decidere, dopo una fetta di prosciutto da mensa e un caffè. Faccio colazione con gli studenti. ‘Va bene, rimango – dico – oggi andiamo in città’. I ragazzi mi guardano interdetti. Josè non tira nemmeno un sospiro di sollievo, è già pronto con il suo bastone e ora mi mette fretta. E’ già stato qui, mille anni fa, e vuole mostrarmi…



Passeggiamo sulla banchina del fiume. ‘I Romani credevano che fosse il Lete – mi spiega Josè – le sue acque cancellavano la memoria e non volevano attraversarlo, ci volle il coraggio di un comandante che convinse i suoi soldati a raggiungere l’altra sponda’.

Sono io a prendere in mano la giornata. Niente monumenti o chiese, per ora, Josè vorrebbe rimproverarmi, ma ne è un po’ stanco anche lui. Saluto le donne, raffigurazione di quattro continenti, che fanno corte alla statua di Viana e salgo sulla nave Gil Eannes (nessuno che mi dica chi è Gil…). Ho voglia di stare un po’ a bordo e di conoscere la storia epica e immensa dei pescatori del baccalà, il pesce dei mari freddi. Vania era il porto di partenza della grande flotta peschereccia portoghese. Il baccalà ha salvato dalla fame generazioni di pescatori e contadini. La Gil Eannes era una nave-ospedale, faceva da appoggio alle navi di altura che sfidavano il gelo dei banchi di Terranova e della Groenlandia. Mi piace stare qui, salire e scendere da sala-macchina, al lusso della vasca da bagno per il comandante, ai lettucci della ciurma. Guardo le facce dei pescatori, so della loro fatica e del loro ardore. Orgoglio di un mestiere disperato.

Josè non è salito a bordo, mi ha aspettato in praça da Republica. Mi indica la Casa da Camara, la Casa da Misericordia e la fontana progettata da João Lopez, il Giovane. Come se io sapessi della storia architettonica del Portogallo. Oggi è lunedì, tutto chiuso. Non possiamo sedere sulla panchina di pietra sotto le cariatidi della Casa da Misericordia. Ma il sole è un portento e non mi importa. Chiusa anche la Chiesa Madre, due ragazzi si fotografano davanti al portone sorprendentemente color viola, io mi accontento della finestra rinascimentale che incantò Josè tanto tempo fa. Non preoccuparti, stanno restaurando la vecchia casa.

Apro una porta a caso, credevo che conducesse in un caffè, e mi ritrovo nella bellezza ruvida della churrasqueira Oceano. Quattro tavoli, e Fatima e Sonia in cucina. Mi lascio intrappolare. Vinho verte, punzecchia il palato, e frango asado. Mezza porzione, che equivale a due intere in Italia. Rimango l’ultimo cliente, loro chiudono e mi lasciano stare al tavolo.

Ora devo salire a Santa Luzia. Josè al solito rifugge dalle storie facili, ma io voglio di fare il turista, prendo anche la teleferica su rotaia e mi diverto a guardare tre ragazze che vanno al santuario solo per farsi dei selfie. Tiratissime, serissime, felici. Rossetti e piercing, trucco pesante e capelli da parrucchiere. Da lassù, collina alta trecento metri, sulla foce del Lima, il paesaggio è davvero una meraviglia. Vedo il cammino del giorno dopo e so che saranno guai e fatica. Ma non vorrei cedere ai rassicuranti segni che portano all’interno. E’ passata di qui Giulia, è passato di qui, Remo, ci proverò.


Vecchi fotografi, magri come chiodi, offrono foto antiche con gloriose macchine a soffietto, si viene quassù per baciarsi, il prete giovane rimbrotta un gruppo di giapponesi, si cammina abbracciati, le tre ragazze hanno pose da modelle. Il pomeriggio risplende. Mi accuccio al sole.
Mi accorgo che non ho parlato con nessuno. Mi manca una lingua comune. Arriva un compagno di stanza e non capisco una parola di quello che dice. Mi secca un po’ che ci sia lui, mi ero abituato alla solitudine e ai cenci sparsi e al mio odore, ma, è vero, ho anche nostalgia del caos dei pellegrini e qui ci sono solo studenti dall’aria annoiata.
Niente da fare per il baccalà. Costa troppo per le mie tasche. A sera provo il ristorante Nautico, ha una bella aria invecchiata e dimessa, solo tre tavoli occupati, il resto è un deserto, il vecchi proprietari stanno guardando la televisione imbambolati, il figlio cinquantenne mi scruta e non mi qualifica come ‘cliente importante’. Peccato. E’ proprio un bel posto, ma lui avrebbe dovuto fare un altro mestiere. Calamari alla piastra. In fondo è gentile: porta pane e burro e insalata. Sopa de patatas. ‘Dovresti provare le papas en sarabhullo’, dice Josè. Devo imparare che qua si mangia molto. Vino bianco. Che, alla fine ho capito, è diverso dal vino verde.

Ah, dimenticavo, non c’era solo Josè, ad aspettarmi. Ai tavoli rossi del bar di Praça da Republica, c’è Leonard e i suoi occhi da gatto…mi ricorda un appuntamento a Hydra. E canticchia: so long, Marianne…già, Marianne.