Andrea Semplici
In evidenzaItaliaOspedali

Frontiere/La solitudine di Antigone

‘Ragazzi e ragazze stanotte sono tutt’uno./Sbottonano camicie. Abbassano cerniere./Si tolgono le scarpe. Spengono la luce./Creature scintillanti colme di menzogne./Si mangiano l’un l’altra. Sono sazi./La notte, da sola, sposo il mio letto.’ (as)

 

‘Il 7/2 non ha dormito, vai tu al 5/1?’. La ‘privacy’ ci cancella il nome. Nei corridoi non puoi chiamarmi. Nessuno deve sospettare che io sono qui. Mi tolgono un diritto. O me lo concedono? Però poi mi spogliano senza niente sapere del mio pudore, senza chiedermi niente. So ogni storia privata dei miei compagni di stanza, ma il nome non può essere pronunciato fuori da qui. Il mio nome è scritto nella bacheca della fisioterapia. E ogni infermiere o oss lo conosce, guai a dirlo a voce alta.

Le giravolte di infermiere e oss è continuo. Ogni volta bisogna ri/cominciare. A smantellare protocolli. A inceppare algoritmi. Battaglia impari: il protocollo è imbattibile.

Quattro giorni di silenzio. Gli occhi a fissare il vuoto. A ogni domanda risponde: ‘Non mi interessa’. Cosa ti è successo? Il farmaco lo chiamano ‘Trittico’. Wikipedia: ‘Ha effetti antidepressivi, ansiolitici e ipnotici’.

L’uomo con le occhiaie e la grande pancia è fuggito. Almeno così raccontano. É la sua protesta. Lo cercano per un’ora. É andato a prendersi un caffè. E a sera, affamato come me, chiama Deliveroo. E si fa portare una splendida hamburger alle dieci di sera.

Mestiere pericoloso il cuoco. Ne ho già incontrati quattro qua dentro. Ho cercato vanamente di convincerli a impossessarsi delle cucine.

Ci sono splendidi vecchi, che si impegnano come atleti negli esercizi. Tra di loro un ‘grande’ di 98 anni. Arrabbiato con i suoi anni: ‘Un guaio’. Lo diceva anche Ernesto Cardenal. Credo che abbiano ragione, però li vedo reattivi, avvolti nel presente. Ricordo gli occhi scintillati di Boris Pahor (morto dei giorni scorsi a 108 anni) quando mi raccontò della sua terra e le mille ambizioni di Mario Dondero. A 85 anni, corteggiava le ragazze e aveva progetti per i prossimi cento anni. Che meraviglia.

Esci dall’ascensore. E’ il piano destinato ai degenti pronti per la riabilitazione. La prima porta è sulla destra: ‘Luogo di sosta per la salma’.

La giovane infermiera: ‘Metterei un cartello qui sopra: lasciate ogni speranza, o voi che entrate’.

Ha ragione Domenico Quirico quando scrive che, in questi tempi, è stata violata ogni illusione di umanità. La ferocia degli uomini non si ferma nemmeno davanti alla morte. É accaduto nella storia: Creonte impedisce la sepoltura del corpo di Polinice. Cani e avvoltoi ne faranno scempio. Antigone non obbedisce agli ordini del re di Tebe: vuole seppellire il corpo del fratello. ‘E’ un rito voluto dagli dei’. Scoperta, Antigone viene imprigionata. Si suiciderà nella cella in cui è rinchiusa. I corpi della gente di Mariupol sono stati gettati fra le rovine di un supermercato, ‘come se fossero una merce guasta’. Scrive Quirico: ‘la mancanza di rispetto per i resti dei mortali…spalanca al Male le porte per l’invasione del mondo’.

L’affollamento dei viaggiatori negli aeroporti scalza la guerra dai primi titoli dei giornali nel web.

Pulisce il giardino dai petali del glicine caduti a terra. V. sta trasformando questo posto in casa. Il suo equilibrio è traballante, è rotto ovunque, continua a rompersi, fuma una sigaretta dopo l’altra, non vuole la sedia a rotelle e cammina a piccoli passettini e grazie a un bastone. É del Sud, ma appartiene alla cultura della Casa del Popolo di Carlo Monni.

Una mattina, l’uomo silenzioso si sveglia, apre gli occhi, mi vede e mi fa: ‘Ciao’. Lo guardo con un sorriso di felicità.

La donna era in auto con il marito. Lui è morto nell’incidente, lei da due mesi non si è ancora riprese dalle fratture. Ne parla come in un sogno.

La donna ha l’ossigeno, mali in ogni parte del corpo (occhi, piedi, polmoni), conosco il quartiere dove lavorava. Un quartiere popolare. Di confine. Passa i pomeriggi davanti alla televisione: guarda, con ossessione, le serie di crimini. ‘Che vuoi, così passo il tempo?’. É stretta in un busto e non può toglierselo da sola. E nemmeno indossarlo. Ha i piedi gonfi, non può mettersi le scarpe. Tatuaggi sbiaditi scoloriscono sulle sue braccia: venti anni fa fu la prima a incidersi le braccia, la guardavano tutti. Oggi è vecchia e la guardano tutti perché i vecchi con i tatuaggi e con il piercing…Ha il problema del cane e del gatto. Rimasti a casa. Due vicine si occupano di loro. ‘Ma la giornata è lunga’. Ha tre figli, ‘Lavorano, non ci sono mai’.

La donna ha un solo dente. Piccolissimo, spunta dal labbro inferiore, le sue braccia, magrissime e raggrinzite, sono un solo ematoma, color violaceo, si stanno decomponendo. Il corpo è storto, osseo. Mi avvicino. Lei domanda: ‘Dove abiti?’. Rispondo. E lei: ‘Stavo anche io lì vicino, fino ai 19 anni’. Ci tiene a precisare con respiro inudibile: ‘Io non vivo qui, ci sono entrata, ma, hai visto, troppi corridoi, porte, stanze. Non so più qual è la strada’. Le chiedo l’età. I suoi occhi ruotano nel vuoto, cercano un appiglio, cerca una risposta. ‘Credo diciannove’. ‘Lei abita qui?’, mi chiede con un sussurro. Me lo chiede più volte.

Ho fatto la doccia da solo. Non ho bloccato le ruote della sedia di plastica. Ho corso dei rischi. Grande soddisfazione. É che qui non ho ancora trovato uno specchio. Non mi vedo in faccia da mesi. Potrei farmi un selfie. Non ne ho il coraggio.

C’è un vecchio dell’altra stanza che vuole sapere tutto della mia sedia a rotelle. Cerco di convincerlo a chiederne una.

‘Qui non facciamo nulla’, è quello che ti raccontano quasi tutti gli ospiti qua dentro. Non è vero del tutto, non è vero per tutti. Ma ‘quasi’… In questo posto si potrebbero fare mille storie. Microspettacoli, corsi, letture, musica, imparare lingue, studiare. Si potrebbe giocare a carte, guardare film, aiutarsi con ginnastiche fuori dalla riabilitazione, fare un po’ di gare. Insomma, perché gettare il tempo o assuefarsi al letto? ‘Il tempo non passa mai’, è l’altra frase.

Qui dentro ho conosciuto un elettricista, un falegname, uno stradino- giardiniere, un calzolaio, un pizzaiolo, un fabbro, un fotografo, un medico. Mi manca un idraulico (e anche un intellettuale). Potremmo mettere su una cooperativa e autoriparare quanto si rompe. E chi meglio di questi artigiani-ricoverati conosce le esigenze di chi entra qui dentro.

Il tecnico. Era in sala comando per l’Italia centrale, quando, il 28 settembre del 2003, vide tutte le luci del paese spengersi. Panico. Black-out totale. L’uomo non è onnipotente. Non lo ha mai dimenticato. É diventato sordo: adesso un apparecchio a un orecchio, ‘L’altro è morto’, mi dice. Vede male anche con gli occhiali. Cambiati, vede meglio. Ha con sé, il libro su Ulisse che gli ho lasciato. Mi dice che sta imparando storie che a scuole non gli hanno mai detto.

Lo stradino-giardiniere. Si vede che è un operaio. Uno abituato a lavorare. Duramente. Non è un rivoluzionario, lavorava e basta, senza chiedere. Trent’anni a falciare erba sui pendii lungo le strade. A sistemare giardini pubblici. Ginocchi rovinati, dolore a camminare. A un passo dalla pensione, un chirurgo lo convince a operarsi. Placca per l’osso usurato. Infezione. Altre due operazioni. Va avanti da cinque mesi. É impaziente, fa gli esercizi con furia.

La donna non sa l’inglese. Vedova. Il figlio insegna in una università ai confini della Scozia. ‘Cosa vado a fare là?’. Rimarrà qua. Sola.

Non sono riuscito a ottenere la Scheda Informativa per i pazienti. Niente da fare. I ragazzi l’hanno vanamente cercata. Non ho insistito. Leggo un vecchio accordo contrattuale (2018, pre-pandemia): un operatore ogni otto pazienti. Al piano meno uno, nei giorni di festa e la notte, sono due operatori per ventidue pazienti. Al secondo piano, sempre di notte e nelle feste, sono due per vent’otto pazienti.

Turni di lavoro: la lunga è di dodici ore. ‘A volte quattordici’.

Forme contrattuali: i ragazzi dipendono dalle cooperative, o da agenzie dal nome ‘esotico’ o sono liberi professionisti. Partita Iva. ‘Voglio essere pagato ogni minuto che lavoro’, mi dice un ragazzo spavaldo. Più precario, ma guadagna ‘bene’.

Alle otto era ancora qui, sempre attenta. Va via. Alle sette stamattina, è di nuovo in reparto. Non so quanto distanti abiti. Fine orario, casa, doccia,

La cuoca, ho il sospetto, spero di sbagliarmi, deve cucinare sette giorni su sette. E, alla domenica, serve i pasti. Una sua aiutante, magra come un chiodo, porta i vassoi del cibo negli altri giorni. Per la colazione, c’è un’altra donna. Tutte hanno fretta. Devono fare tre piani. Una settantina di letti. Non hanno tempo: lasciano il vassoio sul tavolinetto (si infastistidiscono se vi trovano sopra oggetti) e se ne vanno. Non ce la fanno a controllare se il paziente si è accorto che è arrivata la cena. Toccherà alle oss.

Ho condotto una personalissima battaglia contro il semolino. Nessuna scelta: o mangi questa minestra o salti questa finestra. Una certa predilezione per la fetta di prosciutto cotto.

Il fabbricante di sigarette. É un uomo magrissimo, capelli strappati, bocca senza molti denti. Pelle malata, come se avesse un’epatite. Occhi giallo-marcio. Voce flebile. Parole che hanno una personale follia. Dice che faceva il piastrellista. Una moglie egiziana. ‘Aveva una bancarella’, ricorda. Adesso è sparita. ‘Devo cercarla’. Dice che gli ha rubato la pensione. La sua voce si indebolisce. Lo hanno ricoverato a forza, è la seconda volta che viene qui dentro. Gira con una minuscola valigetta di plastica. Conserva il suo tesoro: tabacco, tre macchinette per costruire vere sigarette, e cento ‘tubetti’ con filtro. Ne costruisce una dopo l’altra. Con cura. Non fuma molto.

Infermiere del Sud. Della mia terra. É in attesa fremente del pacco della mamma dal paese. Con il cibo. Gli devo far conoscere CiccioPacco.

La galleria è infinita. Non finirò mai di visitarla. Ogni giorno si aggiunge un quadro.

L’uomo magro, svuotato, non ha mai avuto i suoni, né le parole. Fin dal suo primo giorno di vita. Tutto è andato storto. Ora puoi stenderti sull’erba, poggiare la tempia sul tuo pugno, guardati attorno, piegare le gambe, pantaloni sporchi di piscio, disteso come se nel letto ci fosse una donna, a cucchiaio. Non c’è nessuno. Strappi i bocci dei grandi fiori. Loro dicono: psichiatrico. E tu gridi al cielo, ululi alla luna. Per l’illusione di una sigaretta.

Poi c’è l’uomo con la rivoluzione impressa sulla maglietta rossa. Capolavoro in/volontario di Alberto Korda. La sua gamba è triturata. Hanno riattaccato i frammenti non più grandi di un sassolino. Infezione. Sangue che esce dal ginocchio. Una operazione, due operazioni, tre operazioni. Il sogno di un vinaino al mare. Rinviato. ‘E’ una via crucis’. Anche tu sei solo a casa.

Stasera sono stanco di questa immensa desolazione.

 

 

 

2 pensieri riguardo “Frontiere/La solitudine di Antigone

  • Notte fonda mi sveglio, primi sintomi di una prostata che invecchia.
    Il telefono lampeggia e come un drogato mi immergo nella rete.
    Ti leggo, per un po’ se qui vicino a me. Sento il tuo respiro, ricordo ancora Istanbul…
    T abbraccio da lontano.
    Piccole fotografie di noi che invecchiamo in un mondo che sembra sempre più folle, anche se estremamente interessante.
    Ritorno a chiudere gli occhi.

    Rispondi
    • Andrea Semplici

      Sai che io ci metto un po’ a mettere assieme il coraggio per ‘leggere’. E non so nemmeno se è possibile che tu veda questo messaggio in bottiglia. Sì che ricordo Istanbul. E allora credo che sia possibile. Andiamo a vedere frammenti di questo mondo ‘interessante’ e sventurato. Gracias

      Rispondi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.