E Antonella? Ritorno a Bivigliano.

Dopo quanti anni? Cercando tracce. Antonella passava le estati al campeggio di Bivigliano. Là, sulla strada di Vaglia. La ricordo come un fantasma leggero e bello. Non saprei ritrovarla.
Regalo il mio tempo a ricomporre un puzzle.
Dopo mille anni, sono a cena a mia sorella a Bivigliano. La casa fu costruita da mio padre. Io non amavo il paese. Per quella stoltezza dei ragazzi che non sopportano i luoghi in cui i genitori ti trasportavano nelle lunghe vacanze di un tempo. Da giugno a settembre ero costretto al confino di Bivigliano. E io desideravo il mare. Che era relegato in una settimana già quasi autunnale e solo perché al bambino ‘il mare fa bene’.
La casa oggi appartiene a mia sorella.
Non avevo molto chiari i miei desideri. Un guaio che non è scomparso in anni più adulti.
Se penso a Bivigliano, oggi, ho ricordi sorridenti.
Il primo bacio. A casa dei Bencini. Durante una ‘festa’. Marzia. Che poi è riapparsa dopo decenni. Anche lei ricordava. Una volta andai anche a prenderla a scuola. Il sapore di quel bacio non è scomparso. Labbra carnose. Un buon sapore.
Giancarla che usciva da dietro un cespuglio con il volto rosso e eccitato. E noi eravamo invidiosi. Giancarla era molto più grande di noi. Lei e Marco erano molto belli.
E attraversare nudi, di corsa, la grande piazza all’ingresso del paese. Si chiamava streaking. Non volevamo contestare nessuno, ci piaceva e basta. Ci divertiva. Guido disse che Cristiana voleva essere vicino a chi correva perché ci vedeva poco e non voleva perdersi lo spettacolo.
Di giorno esploravamo i labirinti del parco di villa Pozzolini. Infrangevamo divieti, conoscevamo un luogo misterioso. Una grotta con una fontana e una scala a chiocciola che si arrampicava nella strana costruzione. Lo facevano con la paura che, dalle pietre umide, spuntasse fuori una serpe. Ora so (wikipedia) che quella grotta è stata costruita nel ‘600.
Andavamo in un grande bosco. Che nascondeva una sorta di radura e al centro c’era la Grande Roccia. Il Massone. Che scalavamo per sederci con gambe penzolanti. Oggi le case hanno chiuso i sentieri. Mio nipote mi assicura che la Grande Roccia c’è ancora. Non è più una terra selvatica.
Il paese è cresciuto, ci sono molte case nuove, una sorta di tornado, poche settimane fa, ha portato via i tetti. Hanno tracciato una strada nuova, quasi una tangenziale per aggirare il paese. La sola strada che lo attraversa ora è a senso unico.
Mia madre, negli ultimi anni, non andava a casa, ma si rifugiava all’hotel Giotto. Non voleva stare sola, non sapeva cucinare. La pensione Giulia non era alla sua altezza. L’hotel Giotto era ‘signorile’, bellissimo il suo parco. La Bruna, forse, allora non era ancora una locanda, era un alimentari. Oggi è un luogo-tappa di chi cammina lungo la Via degli Dei. I ragazzi che arrivano da Bologna, sostano qui per l’ultimo tratto del cammino verso Firenze. Sono i nuovi turisti di Bivigliano. Mi dicono che non c’è più nemmeno una panetteria, non si trovano i giornali. Non c’è una farmacia. Vorrei controllare.
A Bivigliano sono caduto. Dal terrazzo della nostra casa in costruzione. Un volo di due piani. Dico sempre che erano otto metri. Forse erano la metà. Giocavo a palla con mio padre e con Lolotto, il nostro cane boxer. Alle mie spalle c’era un muretto basso, senza alcuna ringhiera. Feci dei passi all’indietro. I ginocchi si piegarono, il corpo si ritrovò nel vuoto. Precipitai. Non ricordo nulla. Ma il volo, sì: il salto mortale, la capriola aerea che feci è impressa ancor oggi nella mia mente, nei miei occhi. Ed è un bel ricordo: la sensazione di volare, di essere padrone dell’aria. Raccontano che atterrai su un asse che serviva da ponticello per i muratori. Gatto Silvestro: mi rimbalzò verso l’alto. Da allora soffro di vertigini e rivivo la sensazione di quel volo ogni volta che ho del vuoto attorno a me. Voglio buttarmi di sotto. So che non posso farlo.
Mi risvegliai nel letto. Un medico si affannava nervosamente. La mia vecchia zia urlava e gridava: ‘Dove si è fatto male?’. Il medico perse la pazienza: ‘Al culo’. Forse allora mi ruppi la vertebra la cui frattura è stata scoperta sessanta anni dopo. O, forse, è vero che mi lussai soltanto l’osso sacro.
Vado a guardare il vuoto nel quale sono precipitato. Hanno riempito il terrapieno e sotto il terrazzo c’è una casa. Deve essere buia.
In sala non c’è più il grande quadro che raffigurava una taverna marinaia. Un quadro scuro e bello. Un marinaio ubriaco accasciato sul tavolo. Un bicchiere di vino. Mi piaceva molto. Mia sorella non ricorda a chi fu venduto. Come il grande tavolo dell’ufficio di mio padre. Assomigliava a una portaerei quel tavolo. La scrivania del capo, in un ufficio, era il simbolo del potere.
In questa sala, con terrazzino, sulla valle, vidi Pak-do-ik rubare il pallone a Gianni Rivera e segnare un gran gol a Ricky Albertosi.
Al bar del paese, vidi l’Inghilterra sconfiggere la Germania nella finale mondiale con un gol-fantasma.
Era l’estate del 1966.
Una sera, Lolotto, il boxer che mi amava, voleva raggiungere un cane che passava davanti a casa, la strada si chiamava, se ricordo bene, via della Fittaccia. Non ce la fece scavalcare il cancelletto e si piantò uno spunzone nella pancia. Se la cavò con una brutta ferita.
In casa c’è un quadro di mio zio, che raffigura un cavallo che si abbevera a una fonte. La ruota del carro che tira è fuori scala. Mi è sempre piaciuto quel piccolo quadro. Era appeso a casa di mia zia, dove ho passato la mia prima infanzia.
Quante donne ho amato nel letto della camera di sinistra? Né ricordo i nomi e i corpi, ma non li rivelo. La più bella notte fu con una donna che avevo appena lasciato (forse l’unica donna che ho lasciato, che stupido che sono stato, mi ero innamorato di un’altra). Lei volle fare all’amore un’ultima volta. Con un’altra ragazza, tempo prima, non feci l’amore, non sapevo nemmeno come si faceva, ma si le tolsi la maglietta e le baciai le tette. Sul divano di sala. Credo la prima volta che ebbi il coraggio di farlo. Mi lasciò nel viaggio di ritorno verso Firenze. Non ho più rivisto Maria Vittoria.
Chiedo: che fine hanno fatto i miei amici? Il Calò (buon giocatore di calcio), il Cubattoli, i Meoni con cui giocavo a ping-pong, i Bencini, i Liverani.
Chiedo a mia sorella: ‘I Bianchi abitano ancora lì’. E indico la casa accanto. ‘Sì, c’è Maria, ha 91 anni’. Maria. Maria. È sempre stata la donna che ha dato una mano a mia madre in casa. L’unica con la quale mia madre è riuscita a non litigare. Era una presenza importante, suo marito ha lavorato alla costruzione della casa di Bivigliano. Le volevo bene. Sì, c’è ancora. Mi alzo da tavola in fretta, zoppico con la stampella fino alla porta della sua casa. E lei appare. Mi vede, sessanta anni dopo più o meno. E tutto il suo viso sorride, gli occhi, la bocca, il corpo, la fronte, le spalle. Mi ha riconosciuto subito. Questa è una piccola, grande felicità.
(Sella, 10 agosto)