Il piombo sacro

Un tempo i cacciatori tiravano fuori i loro fucili. Appena l’albero era innalzato al centro dell’anfiteatro, loro andavano a casa e poi tornavano in fretta nella piazza. Non so per quale magia, ma le armi apparivano all’improvviso. Come se fossero tirate fuori da sotto una giacca. Oppure si materializzavano per un passaggio di mani che sfuggiva all’occhio di chi era appena a un passo. Si formava il cerchio dei cacciatori. La mira al cielo. Centinaia di colpi. Si sparava a pallini. Ricadevano sugli spettatori, sui passanti distratti, sui musicisti. Tic tic sull’ottone degli strumenti. Il sassofonista cercava un riparo e si allontanava. Per prudenza. Legge della campagna. Si sparava agli animali vivi. Appesi ai rami. A testa in giù, per la pelle, per le orecchie. Poi qualcuno decise che questa era barbarie, si scantò del sangue e la modernità fece un altro passo in avanti. Niente più agnelli e conigli a soffrire di vertigini sotto la volta del cielo. Niente più piogge rosse sulla testa della gente. Poi si è sparato su etichette di ferro. Indicavano doni, regali, premi. Per chi aveva la mira migliore. Esercizi degli occhi. I boscaioli di Accettura avrebbero reso felice il Tirofijo colombiano.

Il piombo era un rosario e si allargava a ventaglio. Molti pallini ricadevano a terra per gravità. Altri si conficcavano nel legno. Erano colpi sparati sotto gli occhi del santo e allora era piombo sacro. Così pensavano le vecchie. Qui non dicono vecchie: le donne grandi. Con i capelli racchiusi nei foulard. L’albero, nel giorno del Corpus Domini, sarebbe caduto a terra e allora queste donne dalle rughe a disegnare il volto e le vesti di nero di un lutto eterno diventavano cerbiatte, sentivano la pezzuola scivolare sul viso, alcune si facevano forza con il bastone, ma si precipitavano sulla cima del Maggio caduto al suolo. Dalle gonne, spuntava un ferro, un coltello, un arnese appuntito e tiravano via i pallini del piombo conficcato nel legno. Lavoravano di mano e di leva. Non dovevano far cadere la piccola preda. Deponevano il metallo in una fazzoletto che tenevano nella mano come tessuto prezioso. Non so dove, poi, a casa, mettessero quei pallini. In un bicchiere, in un piattino. Per il tempo che veniva davanti. Ad augurare buoni giorni, a tener lontani i malocchi. Sotto lo sguardo fisso del Santo. Che rimaneva impassibile.

Ogni sera – una donna che si chiama Carmela, vedova da sempre – sfiorava quel piombo santificato e poi toccava la foto di San Giuliano e del marito scomparso nel bosco mille anni prima. Giuliano, anche lui. Andava a caccia. Lo trovarono morto giovane sotto un albero. Se n’era andato via appoggiando le spalle al tronco. E lei, per questa disgrazia, era la prima a correre sotto l’albero per tirar via, con un punteruolo, i pallini sparati dagli amici invecchiati di quel giovane uomo con cui avrebbe voluto vivere. Il piombo la consolava. Poi un giorno, un prefetto decise che la civiltà doveva arrivare al paese e firmò un foglio dove si ordinava ai carabinieri di badare a che nessuno sparasse. La gente, al riparo delle scrivanie degli uffici con la bandiera italiana, non sa parlare e convincere. Ordina. Manda ragazzi in divisa e la pelle troppo pallida. Ci fu rabbia al paese. Ma i tempi antichi erano finiti. E piano piano ci si fece una ragione. Qualche nostalgia nei bar c’è ancora. Carmela, ostinata, ogni volta che l’albero cade cerca ancora il piombo sacro al Santo.