Non riesco a ripartire da Aysa’yita

Il viaggio in Dancalia ha il ritmo delle abitudini. Ogni anno potrei scrivere le stesse storie. Il tempo ha un’altra consistenza da queste parti. O, forse, semplicemente io sono un conservatore. Non cambio i miei passi. Il piacere di ritrovare. Ed è sorprendente che il ritorno non desti più stupore. Un movimento degli occhi, una sorta di sorriso, un sopracciglio che si alza. Una mano che si allunga, un colpo con le spalle. Ecco, sono qui. Per un’altra mezz’ora del tuo tempo e le nostre lingue rimangono incomprensibili. Ho paura ad andare altrove.

Ad Aysa’yita appare Ahmed. Mi vede da lontano, si accorge che sto andando all’ufficio postale. Mi viene dietro. Solo per darmi la mano. Ho le foto dello scorso anno. Gliele do e lui le guarda con un sorriso che si allarga. Poi le mette via. Se ne va subito. Nella sua moschea. Mi accorgo di avvicinarmi sempre ai vecchi. Forse perché intuisco il mio futuro più vicino. ‘Ahmed dorme sul pavimento di cemento del patio della moschea di Aysa’yita. Vive qui da qualche tempo. Ha più di ottanta anni. ‘Ho i miei anni e allora vivo qui’, mi spiegò lo scorso anno. Cuscini attorno a lui, due bottiglie di acqua, il leggio per il corano. Cos’altro serve? Ha avuto tre mogli. Diciassette figli sono vivi. Otto se ne sono andati. Ha fatto il contadino, Ahmed. E’ haji, ha fatto il pellegrinaggio alla Mecca. E’ stato ad Addis Abeba, ha visto il mare, ha viaggiato in Kenya. Negli anni d’orrore di Menghistu, ha vissuto a Mogadiscio. Le sue mani sono cartavelina. Le sue gambe pergamena ossuta. La bolla sulla fronte è un callo bianco.

Ha visto gli uomini che hanno costruito la moschea. Ad Aysa’yita gli italiani hanno lasciato un buon ricordo: furono loro a tirare su il bel minareto che assomiglia a un faro. ‘Colonello Rauti’, Ahmed rammento perfino il nome del comandante di questo territorio.

Il vecchio recita una benedizione per noi. La sura del viaggio, ci dice un uomo che mormora due parole di inglese. Voce lenta, salmodiante, inudibile. Ci augura buona sorte. Gli uomini attorno a lui alzano le palme delle mani verso l’alto. Preghiamo anche noi, assieme ad Ahmed.

Un altro minareto mi ha sempre obbligato a chiedere al mio autista di fermarsi. E’ una costruzione in legno. Degna di un artista che intrecci rami e piccoli tronchi. Con gli anni ha perso il suo equilibrio e sta in piedi in maniera obliqua. Il groviglio di legni è bellissimo e improbabile. Sulla cima c’è un ferro curvato a mezzaluna. Un tempo c’era anche la moschea. Adesso uno sceicco afar ha dato il denaro necessario a costruire la moschea in muratura, ma nessuno ha voluto abbattere il vecchio minareto. Questo posto si chiama Airolafa. Che, mi assicurano, vuol dire ‘terra senza niente’.

Non deve essere così vero, negli anni ho visto il piccolo accampamento stagionale diventare un quasi-villaggio. Oggi sono decine le capanne famigliari degli afar attorno alla moschea. Gli allevatori di dromedari sono ricchi, dicono in città. Certo, un cammello costa almeno 20mila birr, 800 euro. Cosa vuol dire essere ricchi in questa terra? Il mio autista dice che questa gente ha soldi, ma non sa come gli usano. Umm Adal ha 57 anni. Lo scorso anno conobbi suo figlio. E’ il custode della moschea, tocca lui chiamare alla preghiera cinque volte al giorno. Dirige il mondo sacro di Airofala. Ha solo tre figli. Mi racconta che arrivò qui venti anni fa con la famiglia e non si è più mosso.

I nomadi sono stanziali in Dancalia. Mi guardo attorno e mi chiedo come sia possibile: questo è un deserto di polvere. Qui non cresce niente, non ci sono pascoli. ‘Quando piove c’è erba al di là della strada – mi dice Umm senza guardarmi – E il fiume non è lontano’. Mi faccio bastare queste ragioni. Il figlio mi aveva detto che durante la stagione delle piogge si spostavano per sfuggire alla malaria.
Per un istante fisso i sandali di plastica verde di Umm.
Bravo ! interessanti appunti e foto che mi fanno sognare, ricordare,il fascino dell’Africa, x fortuna in febbraio ci ritorno! Vittorio