Dancalia/Il tempo di Hamed Ela (e una ‘grande’ mostra)

Hussein, notabile di Hamed Ela, è stato di parola. Mossa abile, la sua. Nel 2013 il fotografo trentino Paolo Ronc pensò bene che il viaggio in Dancalia compiuto l’anno prima meritasse una mostra. Cerimonia ufficiale ad Addis Abeba, diplomatici, society della capitale, applausi, rinfresco. Ma le foto appartengono a uomini e donne che mai saliranno l’altopiano etiopico, mai verranno all’inaugurazione di una mostra (non possono nemmeno immaginare cosa sia), mai entreranno in una sala di un palazzo. Eppure loro sono i protagonisti di queste foto. Senza di loro né Paolo, né io avremmo potuto scattare una sola immagine. Gli ‘altri’ sono necessari al nostro lavoro, al nostro andare, al nostro cammino. Eravamo in debito verso gli afar, popolo della Dancalia, verso i cavatori della Piana del Sale, verso gli intagliatori dei mattoni di sale, verso chi solleva la crosta di un mare scomparso, verso i cammellieri. Verso la gente, uomini e donne, di Hamed Ela, il ‘pozzo di Hamed’, villaggio della Dancalia.
Lo scorso anno decidemmo di scendere nuovamente la depressione dancala. Assieme a trentacinque foto. Scattate da me e da Paolo. Dovevamo ‘restituire’ qualcosa ai cavatori e ai cammellieri di Hamed Ela. Non avevamo alcuna idea di come fare. Avevamo pensato a dei pali sui quali sistemare le foto. Solo quando arrivammo al villaggio, ci venne in mente che potevamo appenderle alle corde che formano le briglie dei dromedari e avremmo potuto lasciarle sospese fra capanna e capanna. La più straordinaria delle mostre fotografiche venne inaugurata con tè e biscotti in una ‘piazza’ di Hamed Ela.

Qui, terminale delle carovane del sale, vivono, fra ottobre e marzo, almeno quattrocento cavatori, gente che taglia pezzi di sale da un fondo marino disseccato. Qui da secoli si viene a prendere il sale. Solo una ventina di famiglie afar è stanziale tutto l’anno. Abituati alle fornaci dei mesi estivi. Appena sette anni fa, questo era un paese isolato. Lontano. Quasi irraggiungibile. Dovevi voler venire fino a qui, non ci saresti mai capitato per caso. Dovevi far fatica per arrivare fino ad Hamed Ela. La prima volta vi giungemmo a piedi, discendendo, assieme ai cammellieri, il canyon scavato dal torrente Saba.

Oggi Hamed Ela è un Far-East africano. Sono arrivati i turisti (e io sono stato complice di questa migrazione provvisoria , ma capace di mutare storie, destini, meccanismi del potere locale), sono arrivate le compagne minerarie (canadesi, cinesi, tedeschi), è arrivato l’esercito (l’Eritrea, paese rivale è un passo), sono arrivate le puttane. Gli afar di Hamed Ela hanno visto cambiare il loro mondo. Sono arrivati i mercanti somali con il loro chat, foglioline stordenti da masticare. Hamed Ela, oggi, è uno sgangherato villaggio in mutazione. E’ travolto da una metamorfosi. Le carovane del sale scendono ancora dall’altopiano. Ma per quanto tempo sarà così? C’è il forno in cui cuociamo il pane. Fatuma (l’ho conosciuta bambina) si è sposata poche settimane fa. Mi hanno chiamato per dirmelo. Medina continua a intrecciare le stuoie. La pompa indiana del pozzo non si è mai rotta. Una ‘cooperativa’, mi giurano, si occupa dell’affitto delle capanne e dei letti per i turisti. C’è il pronto soccorso della multinazionali canadese che può curare (più i turisti, che la gente del posto). Ci sono i cellulari e, a volte, anche una connessione internet. C’è la modernità. Il nostro racconto si ferma su questa soglia.
Gli afar ci hanno donato le loro immagini, sono stati attori delle nostre fotografie, legioni di fotografi passano di qui ogni anno. Ben pochi tornano. Le loro foto diventano mostre a Roma, a Parigi, a New York, a Toronto. Vengono pubblicate su riviste. Il web è colmo delle immagini di Dallol. Ben pochi riportano qui queste storie.

Io penso che Hamed Ela sia un posto intrigante, dove va in scena il gioco del mondo. Con quanto di schifoso ha addosso e con quanto ha di umano. Era davvero tempo di riportare le nostre foto fino a qui.
Non so cosa abbiano capito gli afar, quando si sono trovati davanti le loro immagini. Io ne ero sorpreso ed emozionato. Ero più felice di una mostra ad Hamed Ela che non al Moma.

Hussein, a fine giornata, mi ha detto: ‘Tolgo le foto, altrimenti stanotte le mangiano le capre’.
Io ho pensato che sarei stato contento se le capre si fossero sfamate così. Che sarei stato orgoglioso se qualche foto fosse diventata un pezzo di capanna. No, Hussein ha il senso del business (non a caso è un capo), ha conservato le foto nella sua capanna e quest’anno, al mio nuovo ritorno, ha riservato una sorpresa.

In una casa in muratura (la sua casa, mi ha detto), con qualche foro per far passare un po’ d’aria, con una veranda in stuoie (e letti all’aperto) ha costruito un ventaglio di foto, le nostre foto. Promette che ci metterà una luce. So che fa pagare un ingresso. Non so quanti sappiano che ad Hamed Ela c’è una mostra permanente di foto. La nostra mostra. Una ‘permanente’ ai confini della Piana del Sale. Dove c’è un pezzettino di storia e cronaca di questa terra. Il gioco è farsi indicare il ritratto di Abdu, una delle nostre prime guide, è andarlo a ritrovare fra la gente di un villaggio lontano.
Dovrei scrivere meglio questa storia.
Addis Abeba, 8 di gennaio