148
Non ho cercato le foto. Non conosco i loro nomi. E credo che, qui, in Europa, non li sapremo mai. Ho un numero per la testa: 148. Quanto spazio occupano 148 corpi? Quanto, se vengono avvolti in un lenzuolo bianco o in una bara di legno?
Noi proviamo a fare una rivista e a me, ogni volta che mi chiedo cosa possiamo fare, non può che venirmi in mente: scrivere. Come fanno i giornalisti. Ma anche questa piccola, inutile cosa è difficile da fare. Mi appare vana. Le parole fermano le pallottole?
148 ragazzi (non solo: c’erano custodi, guardiani…) sono stati uccisi a Garissa, città del Nord-Est del Kenya. E’ il numero che mi tiene sveglio, che non riesco a rendere reale. Cosa sarebbe cambiato se fossero stati solo cinque? Che, forse, non lo avremmo mai saputo. Erano in un campus universitario: in Africa, nell’Africa che conosco, si costruiscono i campus come cittadine isolate, nelle campagne, oltre i confini della città. A volte sembrano compound non finiti. Quasi sempre sono costruiti dai cinesi. Si lasciano i segni di calce sulle finestre. Gli intonaci, ben presto, si scrostano. Ci sono le grandi aule, un campo da pallacanestro, una mensa, i dormitori. Quasi tutti i ragazzi del Kenya (dell’Etiopia, dell’Uganda…) sognano di entrarvi. Gli esami per accedervi non sono facili e, in ogni caso, ci vogliono soldi per andare a studiare in questi campus. Questi 148 ragazzi (e, ho paura, anche coloro che sono sopravvissuti. Come si sopravvive a un massacro? Cosa rimane addosso a te degli spari e delle urla di chi muore?) non avranno più amori, esami, lauree, viaggi, famiglie, amicizie. Non potranno più ascoltare la musica rap. Sono toraci nudi in foto che non voglio vedere. Corpi spezzati. Odore di marcio. Sangue rappreso e già lavato via. Ossa frantumate, un cranio trapassato da un proiettile, le mani distorte, le dita ripiegate verso l’alto.
Questa è una guerra contro i giovani, contro i ragazzi. Una guerra di giovani contro i giovani. E’ una guerra che nega il futuro. I combattenti in Siria e in Iraq sono giovani. I giornali ci raccontano che i foreign fighters ascoltavano rap come i ragazzi di Garissa. Gli assassini entrati in questo campus appartengono agli al-shabaab. Che vuol dire ‘giovani’. In Afghanistan abbiamo imparato a conoscere la ferocia dei taliban, degli ‘studenti’. Boko Haram, in Nigeria, significa ‘nemici dell’istruzione occidentale’. In Kenya, in Tunisia, a Istanbul, in Siria, in Iraq la maggioranza della popolazione è giovane, l’età media è attorno ai venti anni. Spesso inferiore. I giovani uccidono altri giovani. La violenza è banale. Vuole distruggere la speranza. Cacciare gli anni futuri nel buio.
Non voglio mettere in fila gli assassinii cominciati, quest’anno, in un giorno di gennaio a Parigi nella redazione di Charlie Hebdo. Ne ho perso le geografie: Parigi, Tunisi, Istanbul, la Nigeria…e poi il mar Mediterraneo, la Palestina, l’antica Mesopotamia. Non escono dal mio cuore i 43 studenti di una scuola rurale di Ayotzinapa in Messico: rapiti, con la complicità della polizia, da una banda di sicari dei narcotrafficanti, non sono mai riapparsi. Raccontano che i loro corpi sono stati bruciati in una discarica. Ma i corpi, questa volta, non ci sono. Li immaginiamo vivi, sono poltiglia di cenere.
I giornali (le televisioni, i siti web) hanno già fatto assuefazione: i 148 ragazzi uccisi sono rimasti in un taglio della prima pagina solo la frazione di un giorno; il Bardo è già stato dimenticato; i 43 studenti messicani non sono mai stati una notizia importante noi europei. Troppo lontano il Messico, troppo lontano il Kenya, ma questa guerra strisciante sta, senza che ce ne rendiamo conto, cambiando i nostri desideri. In fila per entrare al cinema ascolto i miei vicini che escludono di andare in vacanza a Gerusalemme, a Istanbul, in Messico. Compagni di viaggio, mi hanno scritto che non verranno in Etiopia per la paura scatenata dall’assalto al Bardo. Guardo su una carta geografica la distanza fra Addis Abeba e Tunisi. Roma è molto più vicina.
Noi possiamo solo scrivere. Fotografare. Viaggiare. Non fermarci. Tornare al Bardo, andare in Kenya, camminare per le strade di Istanbul, venire in Etiopia, andare a passeggiare per le strade di Ciudad de Mexico per vistare il museo di Frida Khalo. Non farci prendere dalla paura. Juan Villoro è uno scrittore messicano. Ha 59 anni, ama il suo paese. L’ho sentito dire: ‘Non dobbiamo smettere di scrivere. Dobbiamo giocare, amare, sognare. Dobbiamo scrivere con umorismo. Con sensualità. Con leggerezza: questa è la nostra radicalità. Siamo nell’inferno, ma dobbiamo mostrare il cielo possibile’.
ho visitato la Dancalia e l’acrocoro etiope lo scorso ottobre….era una meta desiderata da lunghi anni…fermata nel mio immaginario dopo i fatti del 2012.
Ho violato i pregiudizi e la prudenza comuni…e sono andata, ho osato!
Ho vissuto giornate intere viva, viva dentro perchè ammaliata, sempre accesa da ogni incontro, mai ho pensato alla paura.
Ho assaporato ogni passo, ho sudato ogni minuto, ho inghiottito le immensità in un tutti gli sguardi posati e ho riportato la bellezza di quei luoghi e del popolo Afar che scompare dentro le mie giornate, a tutt’oggi.
Non riesco a uscirne fuori.
Amo la scelta fatta e i passi tracciati in quei luoghi.
Continuerò a viaggiare anche se da casa la paura di alcune destinazioni mi raggiunge.
“Roma” è davvero più vicina….ma “qui” ci sono nata…
Non è una scelta facile decidere oggi una meta a rischio, incalcolabile.
Il desiderio di conoscenza di altre civiltà e la passione di scoprire l’altro mi troveranno ancora libera?
Ho viaggiato, ho scritto e fotogarafato la vita che mi rapiva…
“Voglio mostrare il cielo possibile”
Voglio continuare a mostrare il “paradiso possibile”…
Resterò un’anima libera, cittadina esploratrice di questo pianeta?
Ho viaggiato, ho scritto e fotografato la vita che mi rapiva…
Voglio continuare a
Ho viaggitato, ho fotografato e ho scritto la vita che mi rapiva