Andrea Semplici

Mostar, Anno Zero

“E Ivankovic, cos’è? Chi è?”, chiede Senada.
Come si fa a capire da un cognome, da questo cognome, se l’uomo è croato, serbo o musulmano. Eppure questa è stata la guerra a Mostar: il nemico, se non ti conosce, non sa chi sei, non sa cosa sei. Prima di spararti deve domandarti ‘Come ti chiami? Come si chiama tuo padre?’. Solo dopo può ucciderti. Già, ma Ivankovic, cos’è? Un giornale bosniaco ha, impietosamente, pubblicato l’elenco dei musulmani che hanno cambiato nome e identità per sfuggire alle violenze croate. Mustafà è diventato Miljenko; Ahmed ha scelto di chiamarsi Darko; Fatima si è ribattezzata in Kata ed Enver adesso è Silvestar. Senada, il giorno in cui i “croati” scatenarono la caccia ai musulmani, non trovò di meglio di strappare la targhetta con il nome della sua famiglia dalla porta. Quanti sono stati uccisi per un cognome sbagliato?

Benvenuti a Mostar, benvenuti fra le rovine della più bella città turca dei Balcani, un tempo simbolo della multietnicità della Jugoslavia, oggi testimonianza della separazione, della paura, di tutto ciò che non si riesce a capire od accettare.

Bisogna sapere dove sono i confini a Mostar. Da quella strada in poi vi sono le case dei musulmani, qui siamo ancora nei quartieri croati. Le linee di separazione sono invisibili, ma chiarissime al vostro amico musulmano o croato che rifiuta di fare un passo oltre un certo marciapiede, al di là del prossimo crocevia.

Lo sa bene Marsela. Nella sua macchina scassata ha due targhe: su una spicca la scacchiera croata, sull’altra i gigli bosniaci. Quando decide di attraversare il ponte (ricostruito) sulla Neretva, il fiume di Mostar, lei parcheggia in un vicolo e cambia le targhe. Solo così è sicura. E adesso cerchiamo pure di convincerci che Mostar è la stessa città, che si trova nello stesso stato (la Bosnia-Erzegovina), che i suoi abitanti dovrebbero rispettare le stesse leggi. Questa è Mostar, anno zero. Sulla riva destra della Neretva, oltre il vecchio Boulevard, linea del fuoco e dei combattimenti più selvaggi, vivono i croati: è Mostar Ovest. Sulla sponda sinistra, Mostar Est, vi sono i musulmani. Le autorità ufficiali della città (un sindaco croato e un vicesindaco musulmano, elezioni imposte dall’Unione Europea) si incontrano (rarissime volte) in quella terra di nessuno che è l’Hotel Ero. Qui un cartello avverte che non si può entrare con i mitra a tracolla. L’Hotel Ero è un luogo triste, simile a mille nel mondo, un teatrino dove si ritrovano gli spregiudicati giocolieri degli organismi internazionali e, in più, è fasullo, una quinta scenografica. Si esce dalle sue porte protette da nugoli di poliziotti e sul muro devastato dalle granate di una casa spicca una scritta rossa: ‘Dobro dosli, Hrvatski Mostar’, ‘Benvenuti della Mostar Croata’. Ma non ci avevano appena spiegato che questa era una città unita? All’Hotel Ero può capitare di assistere a croati e musulmani che discutono con l’aiuto di un interprete: eppure parlano la stessa lingua, anche se non vogliono più ammetterselo. A cinquanta metri dall’Hotel Ero le poste di Mostar Ovest sono sfavillanti: vendono i francobolli del cantone croato. A Est si comprano, in un improvvisato ufficio postale, i francobolli bosniaci. Quale cartolina mi arriverà prima? Bisogna avere una buona memoria a Mostar: e ricordarsi sempre in che tasca si sono messi i dinari e in quale le kuna. I dinari bosniaci servono a Est, le Kuna croate a Ovest. Possiamo mettere d’accordo tutti con i marchi tedeschi: oramai moneta corrente in questo angolo dei Balcani. Il centralino dei telefoni, il 998, è rimasto a Ovest: non sperate di avere informazioni se state cercando un numero a Est. Se dovete chiamare Zagabria, capitale della Croazia, andate a Ovest: è una semplice telefonata interurbana. Da Est è una chiamata internazionale. I croati di Ovest possono avere un passaporto della Croazia, che è un altro stato. Sicuramente non chiederanno mai un passaporto bosniaco. Il ministro della difesa della Croazia è di Mostar, cioè, formalmente, è nato in un altro stato. Per portare merci dentro Mostar Est dall’Adriatico si passano tre dogane: croata della Croazia, croata della Herzeg-Bosna, questo stato fantasma croato dentro i confini della Bosnia-Erzegovina e infine bosniaca alle porte della città musulmana. Sono frontiere sfrontate: uffici-container piazzati fra le case stupefatte di un villaggio che, fino a cinque anni fa, erano lo stesso paese. E’ la nuova topografia della divisione.

Mustafà deve andare all’asilo tutte le mattine. E’ musulmano e va a scuola a Est. La sua famiglia vive (come altri tremila musulmani, prima della guerra erano trentamila) ancora a Mostar Ovest. Nessuno deve sapere che non sono croati e che Mustafà va in quell’asilo. Le maestre hanno cambiato gli orari di ingresso e di uscita di Mustafà; la madre, con addosso tremiti di paura, accompagna il bambino nascondendo la piccola cartella in una borsa della spesa, come se andasse al mercato. Fino a quando potrà durare? Non ci sono più moschee nella parte Ovest della città, sul terreno della comunità musulmana, a un passo dal ‘neutrale’ Hotel Ero, hanno piantato, ai bordi di un immenso cratere, una grande croce: avverte che qui nascerà la Chiesa del Cristo Risorto, nuova cattedrale di Mostar. Il tentativo di costruire una chiesa cattolica proprio nel punto di contatto delle due comunità è stato fermato dall’Unione Europea. Ma per quanto? Nessun minareto è in piedi a Mostar, la chiesa ortodossa è stata distrutta, il vecchio cimitero serbo incendiato, la cattedrale cattolica bombardata, il campanile del monastero francescano abbattuto. Il Vecchio Ponte di Mostar, il lucente arco che balzava con uno slancio di incredibile bellezza fra le due sponde della Neretva, celebre nel mondo per i ragazzi coraggiosi che si gettavano dalle sue spallette, non esiste più: è annegato sotto i colpi dell’artiglieria croata. L’urbanistica della separatezza deve duplicare le sue realtà: due uffici postali, due ospedali, due amministrazioni comunali, due università, perfino due chiese evangeliche, la Cooperazione italiana ha un ufficio a Est e uno a Ovest. I sauditi hanno portato tappeti verdi e ventilatori con le scimitarre dentro le moschee del tollerante Islam di Mostar Est. I turchi promettono denaro per ricostruire il Vecchio Ponte. Gli iraniani hanno aperto un consolato nella città antica. Il velo non si era mai visto a Mostar: adesso cominciano a indossarlo le donne delle famiglie più povere. Nei bar di Mostar Est si dice che uomini con la lunga barba nera, arrivati dall’Arabia Saudita, promettono cento marchi al mese a chi si copre il volto con il velo. A Ovest la Madonna, sotto l’ombra dei sai francescani, continua ogni giorno ad apparire a Medugorje, venti chilometri da Mostar, ombelico delle intolleranze del mondo.

Ma molti musulmani, nei racconti serali attorno al caffè turco, ricordano che la loro vita, quando vivevano a Ovest, è stata salvata, nei momenti peggiori, da un amico croato che lo ha nascosto in qualche anfratto della sua casa. Il giornalista della radio è croato, ma non capiva questa guerra, la detestava e lo diceva. I “croati” gli misero una loro divisa addosso e lo spinsero sulla linea del fuoco. “Adesso vai dai tuoi amici”, gli risero dietro in maniera oscena. Riuscì a salvarsi, a togliersi quella divisa, a gridare ai musulmani: “Sono io”. E fu accolto oltre le barricate di morte. A Mostar Ovest, non lontano dal vecchio centro elegante del Rondò, vi è un piccolo cimitero improvvisato in un giardino: vi sono croci cristiane e mezze lune musulmane. Tutti mi avevano negato che fosse possibile. Nessuno è voluto venire a vedere, nessuno me ne ha raccontato la storia. Il giardino-cimitero è ben curato, come se genitori affranti venissero tutti i giorni a guardare le tombe dei loro figli. La Mo Selection Band suona un rock che sfonda i timpani e fa sobbalzare lo stomaco. I ragazzi, dall’aria truce e simpatica, sembrano fuori di testa. Ma la musica ha riunito ragazzi che sono serbi, croati e musulmani. Hanno combattuto, magari da cantine e trincee opposte, e adesso, in nome del rock, se ne fregano e vivono assieme. Seid Smajkic è il gentile Mufti di Mostar. Veste con una giocosa cravatta azzurra e un serio abito grigio. In testa ha la ‘mica’, la coppola degli anziani musulmani della Bosnia. La sua moschea, Koski Mehemed Pascià, è bella: sorge su uno scoglio della Neretva. Il minareto non c’è più: si intravedeva in ogni foto scattata dal Vecchio Ponte. Il Mufti ha fatto ammonticchiare le pietre per ricostruire la sua torre acuminata La cupola della moschea è stata restaurata: architetti fiorentini hanno diretto i lavori. Seid Smajkic si avvicina alla finestra, le acque verdissime della Neretva spumeggiano in gorghi irrefrenabili, il fiume sembra urlare. Dice Seid con una voce che non vorrebbe farsi udire: “Non chiedeteci di amarci. Non è possibile. Adesso possiamo solo imparare a essere dei vicini”. Sono tra la parole più sagge che ho ascoltato a Mostar.