162 chilometri. Viaggio fra Israele e Palestina

Nell’estate del 2008 abbiamo passato due mesi fra Israele e Palestina. Io e Mario. Due fotoreporter italiani. Dovevamo raccontare, in una serie di piccoli libri, sei città. Tre israeliane e tre palestinesi. Una notte, alla vigilia di ferragosto, mentre ci trovavamo a Nablus, fummo sequestrati dall’esercito israeliano. Ci tennero prigionieri per ore. Guardati a vista da tre soldati armati. Per una notte otto soldati di Israele ci fecero capire, sulla nostra pelle, cosa vuol dire essere palestinesi in Palestina. La storia di quelle ore, dalle due del mattino all’alba, è raccontata in un’altra di queste piccole storie in questo sito.

Da quella sera ho tenuto, ogni giorno, un breve diario della vita normale che, in quella terra, mi scorreva davanti. Ho ritrovato quegli appunti. Li avevo inviati alla rivista Altreconomia. Era un modo per sentirsi, in qualche modo, padroni del proprio destino e per provare a narrare di un quotidiano fatto di continue, piccole, stupide, arroganti ingiustizie. Ho raccolto quei frammenti, non sapevo cosa fare, ma non mi andava che rimanessero nei miei cassetti. Li ho messi qui.

Ps. Mario è Mario Boccia, una dei migliori fotografi italiani.

162 chilometri. Viaggio fra Israele e Palestina, la Terra Stretta.

 Ho cambiato mondo. 162 chilometri e ho cambiato mondo, geografia, universo. Da Gerusalemme ad Haifa. Dalle colline della Palestina al mare di Israele. Dall’aria di guerra a bassa (e alta) intensità a una città cosmopolita, spavalda, spudorata. Una città di non luoghi. Abbiamo scelto una strada lunga per risalire Israele/Palestina. Siamo andati verso Oriente, siamo scesi nella valle del Giordano, sotto il livello del mare. Check point di Gerico. Nessun problema per gli stranieri. Ostacolo quasi invalicabile per i palestinesi. Check point rilassato. Gerico è città pigra. Roccaforte di Fatah. Qui Arafat fece costruire, davanti a un campo-profughi, un immenso casinò. Gli ebrei, quelli indifferenti alla loro religione, venivano a giocare e a donne. Poco oltre Gerico, in mezzo al deserto giordano, ecco il monastero greco-ortodosso di san Crisostomo. Isola greca in mezzo alla Palestina. Luogo di ospitalità per pellegrini. Qui si parla solo greco.

Saliamo per la valle del Giordano. Quasi scomparsi gli accampamenti beduini. Ci sono gli insediamenti dei coloni israeliani. Hanno piantato file diritti di palme da datteri.

Usciamo da un altro check point. I soldati sono sempre distratti. Due battute e un gesto annoiato per farci passare. Nord di Israele/Palestina. Aggiriamo la West Bank. Torniamo verso occidente. Ci fermiamo al kibbutz Misra. Fu fondato da comunisti troskisti. Questa è terra di Russia. Le cameriere del ristorante parlano russo. Qui si mangia maiale. Nessuno lo chiama così: è ‘carne bianca’. Ci raccontano che vengono allevati su ‘piattaforme’: i maiali, animali impuri per l’ebraismo e l’islam, non possono toccare la terra di Israele/Palestina. Altri ci dicono che sono i palestinesi cristiani di Nazareth ad allevare i maiali.

Nel primo pomeriggio arriviamo ad Haifa. Altro universo. Turisti ebrei americani a plotoni affiancati. Spiagge affollate. Città cosmopolita. Dov’è il vecchio centro arabo? Il quartiere di wadi nisnas? Città di religioni: la più ‘visibile’ è il Bahai. Il santuario di questa fede monoteista è lo skyline di Haifa. Poi le moschee, le sette islamiche, i drusi, i maroniti. Gli ebrei sono quasi invisibili. I giovani non  sanno indicarci dov’è la sinagoga. Città di religioni, ma città atea, laica, gaudente. E’ la vita notturna a rendere celebre Haifa. I missili hezbollah, la scorsa estate, colpirono qualche casa di Haifa. Fra queste, ci dicono, la vecchia sede del partito comunista. Terra stretta, Israele/Palestina. In 162 chilometri abbiamo attraversato il mondo. Dal teatro della guerra alla movida mediterranea, dal Muro alle feste in spiaggia dell’estate di Haifa.

Arabi danzanti

Parlo con Ahmed al Blue Moon di Tayibeh, una città arabo israeliana. Trentacinquemila abitanti. Siamo a ridosso del Muro. Ma dalla parte di Israele. Un tempo questa era un terra ricca e fertile: era conosciuta come il Triangolo, un territorio palestinese dentro i confini israeliani. Oggi queste cittadine, Tayibeh, Tira, Qalansuwa, sono quasi un’enclave alla frontiera fra Israele e Palestina.

Ahmed ha poco meno di cinquant’anni. Beviamo una birra assieme. Non è un buon musulmano, Ahmed. E ha occhi di malinconia. Parla a voce bassa: ‘Noi non sappiamo come definirci. Abbiamo documenti israeliani. Qui paghiamo le tasse. E chi ci crede ancora può andare a votare, ma sono sempre meno. Non abbiamo più identità. Cosa sono io? Israeliano? Palestinese? Fumiamo il narghilé, andiamo al caffè, mangiamo humus: è questa la nostra identità? Quasi tutti qui lavorano a Tel Aviv o a Gerusalemme. Torniamo a Tayibeh solo per dormire. I ragazzi sognano di andare all’estero. Stiamo camminando su un filo sottile e non sappiamo da quale parte cadremo. Cresciamo come palestinesi. Da bambini non ci accorgiamo di niente, il nostro mondo è il cortile, sono le strade di un villaggio arabo. Non incontriamo gli israeliani. Poi diventiamo adulti, cominciamo a capire cosa voglia dire essere palestinese qui e ci perdiamo. Lentamente, ci rassegniamo. Mettiamo su famiglia. Gli israeliani confiscano le nostre terre quando vogliono. Costruiscono la linea di alta tensione sulle terre di Tayibeh, mentre evitano con cura quelle di un paese israeliano. La nuova autostrada ci ha tolto altre terre e ci ha tagliato fuori da Israele: solo tre ponti permettono di scavalcarla. Cercano di spezzare, in ogni modo, ogni unità della terre palestinesi. Qui, cittadina israeliana, ma araba,non c’è nessun investimento pubblico: solo il 30% delle strade sono asfaltate, le fogne hanno tubi di plastica e si rompono di continuo, le scuole sono pessime, il comune è alla bancarotta. Un insediamento di poche centinaia di coloni nei Territori Palestinesi riceve molti più soldi di Tayibeh. Per Israele noi siamo arabi. E perciò cittadini invisibili o, peggio, nemici. E noi continuiamo a non sapere chi siamo. Cosa possiamo fare?’

Qui, in Israele/Palestina tutti sono certi che se, un giorno, fosse deciso un cambio di confini e villaggi come Tayibeh tornassero a essere per davvero Palestina, quasi tutti i suoi abitanti sceglierebbero di rimanere in Israele. Arabi lacerati.

Ahmed ha studiato in Europa. Aveva un lavoro. Ma è tornato. Non è facile rimanere lontani dalla Palestina. Anche se a Tayibeh si chiama Israele.

Facciamo un giro un macchina. C’è un villaggio ebraico vicino. E’ sorvegliato da guardie armate. E’ come un granderesidence. Qui le strade appaiono ben tenute, tutto è elegante. Perfino la natura appare più bella. Ci sono dei cancelli, delle sbarre, delle recinzioni. Vorremmo visitarlo. Ahmed parla in ebraico con una guardia. Poi ci dice: ‘Ecco, ci ha detto che non possiamo entrare’. La voce di Ahmed è quasi un sussurro. Torniamo al Blue Moon. A bere birra. Ahmed ordina un whisky.

Arabi danzanti è il titolo di un bel libro scritto da Sayed Kashua. In Italia è uscito per Guanda. Sayed scrive in ebraico. E’ un giovane arabo-israeliano nato a Tira. A poca distanza da Tayibeh. E’ la storia di un palestinese che cerca di ‘cambiare identità’ perché gli israeliani con si accorgano che lui è arabo.

Check Point

Sono i dettagli a colpirmi. Le piccole storie più della complessità di una realtà assurda. I ‘piccoli’ divieti arroganti più dell’analisi della ‘cattiveria’ della general closure dei Territori palestinesi.

Nel groviglio di giorni sacri di questi giorni (Ramadan, capodanno ebraico), ci sono anche i cristiani e la loro festa dell’Esaltazione della Croce. E’ stata sabato. Così almeno mi ha spiegato, qui a Gerico, un padre francescano grande e grosso, ottimo giocatore di basket. Per consentire ai fedeli cattolici di recarsi a Gerusalemme (trenta chilometri di distanza da Gerico) a pregare, il francescano ha dovuto (almeno un mese prima) mettere in movimento le autorità ecclesiastiche della città santa. A loro è toccato chiedere il permesso al comando centrale dell’esercito israeliano. I militari, poi, hanno comunicato la loro risposta agli uffici locali dell’esercito. A loro volta questi uffici hanno informato della decisione le autorità palestinesi di Gerico. Solo allora i fedeli hanno saputo se potevano o meno salire fino a Gerusalemme e scavalcare l’ultimo check point prima della città. Il permesso è concesso, generalmente, per un soggiorno dalle cinque del mattino alle dieci di sera. A volte, se sei fortunato, hai un’autorizzazione a dormire a Gerusalemme. Bisogna far lavorare l’immaginazione: se non hai alle spalle, gente importante come i cristiani di Palestina, come puoi sperare di avere un permesso per superare i check point che chiudono la tua città? Ho conosciuto palestinesi di Gerico che, da quindici anni, non sono mai più riusciti ad andare a Gerusalemme. E Gerico è considerata una città tranquilla e senza l’ombra di una minaccia per la sicurezza di Israele.

Fino al settembre del 2006, Israele ha costruito 528 closure nei Territori Palestinesi. Sono 72 check point fissi e undici parziali (a volte sono in funzione, altre volte vengono lasciati aperti). In più: 445 strade sono state interrotte con massi, cubi di cemento, cancelli, barriere, fossati. Senza contare gli improvvisi check point volanti che sbarrano le strade nei momenti di maggior tensione.

Oggi l’esercito israeliano ha comunicato di aver rimosso la maggior parte dei roadblocks della West Bank. Ma proprio oggi sono salito da Gerico al convento greco-ortodosso di San Giorgio: ho percorso una strada di montagna che si arrampica lungo i dirupi del wadi Qelt. Dopo una curva ho dovuto frenare bruscamente: la strada era interrotta da cubi di cemento e montagne di terra. Un roadblock Ho proseguito a piedi fino al monastero. Un cammino di mezz’ora. Poca fatica. Ma non ho capito le ragioni di sicurezza di quell’interruzione. ‘Lo chieda agli israeliani’, mi ha suggerito un tranquillo e sbrigativo monaco di San Giorgio.

Il mar Morto è a cinque chilometri da Gerico. Si intravede all’orizzonte. Ma le sue sponde sono vietate ai palestinesi. Un check point, lungo la strada israeliana numero Uno, quella che taglia i Territori da ovest ad est e, così, separa il Nord dal Sud della West Bank,  blocca l’accesso alle acque salate di questo mare. Solo gli israeliani e gli stranieri possono fare il bagno nel mar Morto. La prima spiaggia, provenendo da Gerico, è protetta da filo spinato e recinzioni. Appare come una affollata Miami. Mi sono spinto fino al cancello: dentro vi era un ingorgo di pellegrini italiani e spagnoli, vocianti gruppi di russi in gita, una pattuglia di suore ortodosse ucraine e serene famiglie israeliane stese sull’erba. La spiaggia non è pubblica: per entrare si paga 30 shekel, poco più di cinque euro.

Mi sono chiesto le ragioni di sicurezza del check point che blocca l’accesso al mar Morto ai palestinesi. Perché  Rhaed, l’amico di Gerico, non è potuto venire con me?

 La fonte del dato sulle closur è tratta da www.passia.org

 Check Point/2

In Palestina circola una storiella. Racconta di un uomo che ha sette figli e che vive in una sola, piccola stanza. La sua vita è impossibile e infelice. Un giorno si reca dal saggio del villaggio per chiedere un consiglio. E il saggio gli suggerisce di far entrare nella stanza una vacca. L’uomo protesta, ma accetta il consiglio. La sua vita peggiora. Il saggio, allora, gli dice di ospitare nella sua stanza anche un cane. Ancora una volta l’uomo ubbidisce e la sua vita peggiora ancor di più. Il saggio non ha dubbi e ora gli consiglia di far entrare anche un pollo. L’uomo non ne può più. Torna ancora dal saggio e si lamenta per ore. Il saggio allora gli dà un nuovo suggerimento: faccia uscire la vacca. E la vita dell’uomo subito migliora. Il saggio insiste: allontani anche il cane. Adesso l’uomo comincia a stare bene. Ultimo consiglio: fuori dalla porta anche il pollo. Ecco, ora l’uomo è felice con i suoi sette figli in una sola, minuscola stanza.

I check point e i roadblocks sono apparsi lungo le strade dei Territori Palestinesi quattordici anni fa. Accerchiano le città, impediscono i movimenti fra Nord e Sud della West Bank, vietano l’accesso a Gerusalemme ai palestinesi. Adesso l’esercito israeliano comunica che sta rimuovendo i roadblocks dalla West Bank così ‘l’economia palestinese potrà migliorare’ (testuali parole dei portavoce dell’esercito). Sul tavolo delle discussioni fra il presidente palestinese Mahmoud Abbas e il premier israeliano Ehud Olmert c’è la rimozione dei check point (tranne quelli che, nei piani di Israele, sono indispensabili alla sicurezza dei confini e alla protezione degli insediamenti ebraici nei Territori). La vacca, il cane e il pollo, forse, potranno uscire di casa. Se i check point (non tutti) verranno tolti, i palestinesi non avranno più ragione di lamentarsi.

Check point/3

Siamo stati spavaldi. Ma la nostra macchina ha le insegne dell’Unione Europea e crediamo di potercelo permettere. Lasciamo Nablus che è già buio: volevamo vedere le ore gioiose di un pomeriggio di Ramadan in questa città intrigante. Le regole della sicurezza consiglierebbero di non viaggiare di notte nei dintorni di Nablus. Ma non puoi vivere sempre appeso alla paura: e poi la nostra macchina ha davvero, e ben visibili, gli adesivi dell’Unione Europea. Sono incollati sulle portiere e sul cofano. I soldati israeliani al check point di Huwwara (sbarra gli accessi a Nablus per chi arriva da Ramallah) siano giovani e nervosi. Non ci chiedono nemmeno i documenti. Dobbiamo starli antipatici. Parlano solo ebraico. Ci fanno scendere dalla macchina con modi bruschi, ci obbligano a starne lontani, ci piazzano sotto una luce. Appare un cane lupo. Lo fanno salire in macchina. Lo chiudono dentro. E’ lui a perquisire freneticamente la macchina. Cerchiamo di protestare. Dentro ci sono computer e macchine fotografiche. Un soldato ci spinge. Il cane finisce il suo lavoro, gratta con le zampe sui finestrini. Ci lasciano andare.

Economia

Una giovane economista inglese mi spiega: ‘Questa guerra non ha ragioni politiche o religiose. O meglio: politica e religione sono alibi, demagogie, scuse. La guerra fra Israele e palestinesi ha come posta l’economia. Israele vuole mantenere il suo livello di vita, vuole veder crescere la sua ricchezza. E non può consentire alla Palestina di fare altrettanto: non ci può essere concorrenza, Israele non vuole correre rischi. Ma, allo stesso tempo, la Palestina, quattro milioni di abitanti, è un mercato fondamentale per Israele’.

E allora devo raccontarvi di polli e di bombole del gas

Il pollo di Gerico, il gas dei beduini

La premessa è: queste storie mi sono state raccontate da un giovane palestinese. Non ho modo di verificare le sue parole. E lui mi spiega anche che da quindici anni non ha rimesso piedi nel quartiere di Gerusalemme dove è nato: eppure vive a venti chilometri dalla città santa di Palestina. Ma lui, palestinese, non può superare l’ultimo check point che blocca la strada per Gerusalemme. E ha meno di quarant’anni: è quasi certo che se chiede la concessione di un permesso per tornare nella sua città natale, gli venga rifiutato. Gli israeliani diffidano dei palestinesi che abbiano meno di quarant’anni.

Ma nemmeno i suoi polli possono andare a Gerusalemme. Se Ahmad, davvero, allevasse polli. Nessuno può venire qui, a Gerico, terra d’agricoltura e di buoni polli, e comprarne uno da mangiarsi nella sua casa di Gerusalemme. Se, ai due check point che si incontrano lungo la strada che dalla più ‘antica città del mondo’ risale alla ‘città più sacra’ della Terra, il povero pollo, vivo o morto che sia, fosse scoperto da un soldato, sarebbe confiscato e il ‘contrabbandiere’ passerebbe qualche guaio. Al rovescio non è così: le merci di Israele arrivano regolarmente sui mercati delle città palestinesi.

I beduini, popolo ex-nomade della Palestina, furono cacciati dai deserti del Negev nel 1948. Dopo la prima guerra arabo-israeliana. Molte famiglie, centinaia e centinaia di persone, vivono, da anni, accampate ai bordi dell’autostrada numero Uno, la strada che collega Gerusalemme alla valle del Giordano. Questa è West Bank, ma, corridoio verso la Giordania e il mar Morto, è terra controllata strettamente da Israele.

I beduini hanno bisogno di comprare le bombole del gas. E Gerico è la città più vicina. I beduini possono passare, quasi senza problemi, il check point che ne controlla l’accesso e possono comprare il gas, ma non potrebbero trasportare fuori città la bombola. In realtà lo fanno lo stesso, cercando di nasconderla: contano sul fatto che Gerico, feudo di Fatah, è città tranquilla e i soldati non sono meticolosi nei loro controlli (ma, all’improvviso, possono diventarlo). D’altra parte, i beduini, come  i palestinesi, non possono andare nemmeno a Gerusalemme che sarebbe altrettanto vicina di Gerico. Nessuno sa spiegarli dove potrebbero comprare il loro gas.

Avvertenza: in Palestina, come in Israele, c’è chi riesce ad arricchirsi sui traffici e sui contrabbandi che violano, con regolarità, questi assurdi embarghi di merci, ma queste storie minime di polli e bombole del gas sono l’economia quotidiana che si vive ai check point che assediano i Territori.

Secondo la Banca Mondiale, il Muro ha ridotto del 3% il Prodotto Interno Lordo della Palestina. Il reddito medio di un palestinese è di 355 dollari al mese (dato della fine del 2005)

Feste

Oggi cominciano i lunghi giorni di festa del Capodanno ebraico. Per i giochi del calendario lunare, oggi comincia anche Ramadan, il mese più sacro dei musulmani, il mese del digiuno diurno. Sono giorni eccitati. Le moschee di Gerico sono agghindate con luci multicolori e mezze lune di neon verde. Giorni di festa per musulmani ed ebrei. Ma i palestinesi della West Bank, fino a domenica, fino alla fine del ponte festivo ebraico, non potranno lasciare le loro città. La Palestina sarà isolata. Anche coloro che hanno i permessi israeliani in perfetta regola saranno bloccati ai check point che controllano le strade dei Territori. Giorni di festa. I palestinesi non potranno muoversi.

Gilad Sheba non capisce

Il padre di Gilad Sheba è arrivato in Palestina nel 1938 dalla Polonia. Era un pioniere. Gilad è cresciuto in un kibbutz molto severo. Vi regnava il principio della collettività, il comunismo più concreto: ogni bene era in comune, non esisteva ricchezza personale, perfino i figli dovevano crescere nella ‘casa dei ragazzi’, separati dalla famiglia. Gilad ha vissuto la crisi deikibbtuz oltre la loro privatizzazione (avvenuta nel 2000) e continua a vivere nel kibbutz fondato da suo padre (che, oggi, è un’azienda agricola e turistica). Si trova ad Eilon, in Alta Galilea.

Oggi la ‘casa dei ragazzi’ è un elegante agriturismo (a centocinquanta dollari a notte) e il pollaio è stato trasformato nella sede di Keshet Eilon, bella scuola internazionale di musica. Qui centinaia e centinaia di ragazzi vengono, ogni estate, a studiare il violino. Gilad è un musicista: lui ha fondato la scuola.

Gilad ha più volte invitato giovani musicisti dai paesi arabi e dai Territori Palestinesi. Sembrava possibile che arrivasse un ragazzo dal Libano. I documenti erano a posto. All’ultimo momento, dice Gilad, ha deciso di non venire più. Ha cercato di chiamare musicisti di Ramallah. ‘Ci hanno risposto con la diffidenza e ci hanno detto che non hanno bisogno del nostro sostegno’, spiega, con malinconia, Gilad. Credo che Gilad, uomo di mezza età, sia una brava persona. Credo che sia convinto che la musica può affratellare più di ogni altra esperienza. Gilad, cresciuto in un kibbutz, non riesce a capire. E, forse, non se ne dà pace.

 I taxisti e Ben Gurion

Ad Akko (Akka per i palestinesi) viviamo in un quartiere della periferia. Dieci minuti di taxi dalla città vecchia. Quartiere ebraico, si chiama Ben Gurion, il padre dello stato di Israele. Ci sono cinque sinagoghe attorno alla nostra casa. Ma sono sempre vuote, ci dice la signora che ci ospita. Lei è un’ebrea rumena arrivata qui nel 1958. La religione non è molto importante in questa città laica della Galilea. La nostra padrona di casa non digiunerà per Yom Kippur. Suo figlio, diciottenne, sì. Quando a sera torniamo a casa, abbiamo la sensazione che i taxista  arabi non vengano volentieri fino a Ben Gurion. Un paio di volte hanno detto che non potevano portarci. Questa nostra impressione è vera o anche noi stiamo diventando paranoici?

 Scuole

Ad Akko (Akka per i palestinesi), nord di Israele, vivono poco più di cinquantamila persone. Questi sono i primi giorni di scuola. Mi raccontano che ci sono sette scuole elementari ebraiche. Frequentate da duemila e cento ragazzini. Ci sono due scuole arabe (gli arabi sono 17mila ad Akko). Ogni mattina vi fanno ingresso oltre duemila e cinquecento bambini e ragazzi. I francescani, poi, hanno una loro scuola in città vecchia: nella grande corte della Terra Santa School, poco dopo le sette del mattino, si allineano più di cinquecento ragazzi. Tutti arabi. Non mancano i litigi fra preti: a volte padre Quirico, responsabile della scuola francescana, è brusco e caccia i ragazzi più irrequieti. Altri preti non sono d’accordo: ‘Non possiamo allontanare proprio chi ha più bisogno’. La scuola pubblica araba è sommersa dai ragazzi. Se una famiglia ha i soldi necessari manda i figli ad Haifa, a oltre venti chilometri di distanza. Qualche famiglia araba, ad Akko (Akka, per i palestinesi), prova a iscrivere i figli alla scuola ebraica.

Il buco nel muro

Vado a Ramallah. La ‘capitale’ della Palestina è, praticamente, attaccata alla periferia di Gerusalemme: mi appare come un’unica, caotica urbanizzazione. Bisognerebbe passare dal varco di Qalandiya per andare a Ramallah. Ma qui, attorno a Gerusalemme, il Muro è come un serpente attorcigliato: ancora non ho capito dove comincia e dove finisce, me lo ritrovo sempre davanti. Mi hanno detto che ad al-Ram, una periferia di entrambe le città, c’è un buco nel muro. Da lì si può andare a Ramallah senza passare dal check-point di Qalandiya. Seguo, per un dedalo di strade, la corrente delle macchine. Ed è vero: il muro sembra volere schiacciare due palazzi, ma mancano quattro o cinque lastroni e c’è lo spazio per lasciar passare le macchine. Così vado a Ramallah senza che qualcuno faccia finta di controllarmi. Siamo una fila ininterrotta di auto che passano per questo buco nel muro. C’è della lucida follia in questo gioco dei check-point.

 Questione di etichetta

Alì fuma troppe sigarette. Almeno due pacchetti durante il nostre breve incontro. E sta sempre appeso al suo cellulare. Non abbiamo fatto una grande conversazione. Alì ci teneva solo a dire che la sua fabbrica di sottaceti, la più grande di Palestina, ha prodotto, fra aprile e giugno, 2500 tonnellate di cetriolini. Ora sta per arrivare la stagione delle olive e Alì prevede di inscatolarne almeno duemila tonnellate. Alì fa raccogliere le verdure di cui ha bisogno (peperoni, melanzane, pomodori) nella valle del Giordano e nelle aspre colline della West Bank. Duemila braccianti lavorano per lui durante la stagione dei raccolti. Mi apre davanti al naso una scatola di sottaceti dopo l’altra: sono buonissimi, da leccarsi i baffi. Anche se sacchi di conservanti arrivano dalla Cina (la globalizzazione è roba grandiosa). La famiglia di Alì vive in una casa degna di un re: è una sorta di pagoda a più piani che sovrasta gli oliveti delle campagne di Tul Karem. Alì spiega con orgoglio che è costata un milione di euro.

Un operaio incolla a mano le etichette sulle scatole dei cetriolini. Se sono dirette verso i mercati arabi (Giordania, paesi del Golfo) vi sta scritto ‘made in Palestina’. Se, invece, prenderanno la direzione opposta e attraverseranno il Muro per andare nei supermercati israeliani, non vi sarà scritto dove sono prodotti. Due diverse linee di stampa. Il 30% della produzione della più importante fabbrica di sottaceti della Palestina è venduto in Israele. Il Muro non è un problema. Gli israeliani, come gli arabi, sono ghiotti di cetriolini: non fermerebbero mai i camion dei sottaceti. Questa è una storia di affari e di gola. E, in fondo, è solo una questione di etichetta.

 Questione di etichetta/2

Una piccola fattoria palestinese produce ottimi formaggi. Non potrebbero essere venduti in Israele, ma in Palestina non hanno un mercato. Sono troppo cari. Quasi sempre questi formaggi riescono a passare i check point. E’ un piccolo commercio clandestino. Il materiale per le etichette di questi formaggi arriva dalla Siria. Poi vengono stampate in Giordania e si badano bene dal riportare l’indicazione del luogo di produzione. I buongustai israeliani trovano questo formaggio nei negozi di Gerusalemme Ovest e di Tel Aviv e non chiedono da dove provenga. Sono sorprendenti le microstorie dei rapporti fra nemici in questa terra.

Gita aziendale

L’ossessione ricorrente di questo viaggio è l’incapacità razionale di capire. E’ l’impossibilità di scoprire, nei microfatti di ogni giorno, le ragioni del conflitto. Cammino per le strade di pietra della città vecchia di Akko. Incontro un gruppo di palestinesi in gita. Hanno in testa cappelli da cow-boy azzurri. Sono tecnici della al-Tineen, società del gas di Palestina. Vengono da Hebron, Nablus, Jenin, le terre della guerra a bassa intensità. Hanno un permesso degli israeliani per questo viaggio. Turisti palestinesi nel Nord di Israele.

L’artigiano palestinese

Cerco di capire: il padre di Jabber veniva da Jenin. Non è mai potuto tornare nella sua città. Era oltre il confine invalicabile fra Israele e quella terra che fu chiamata Cisgiordania. Che oggi è la West Bank. Jabber lavora il rame. Con abilità. Ha una piccola bottega fra i vicoli di Akko. E’ così bravo che, spesso, i rabbini gli chiedono di scolpire le tavole della Torah per le loro sinagoghe. Un artigiano palestinese, figlio di una famiglia di Jenin, sbalza il rame per le preghiere dei religiosi ebraici.

I sufi gentili

Saranno necessari ancora cinque di lavori perché la zawyia di el-Shazliya ritrovi il suo antico splendore. E’ il luogo di preghiera, qui ad Akko, di una confraternita sufi, movimento mistico dell’Islam. Qui è sepolto Alì Nurridin al-Yashrati, sceicco di origine libanese, fondatore, nel 1862, di questa setta. Fra Israele e Palestina, sono circa duemila i fedeli degli insegnamenti di al-Yashrati. In piedi, davanti alla sua tomba, Omar mi spiega: ‘Lo scopo di una religione è l’elevazione della spiritualità di ogni essere umano. La terra è di tutti, non si combatte per una terra. Non esiste la Jiahd, la guerra santa: l’unico conflitto è per controllare noi stessi. Non esiste una religione che sia superiore alle altre. Tutti i fedeli, di qualunque religione, possono raggiungere Dio, il centro di ogni pensiero umano’. Alla zawyia di el-Shazliya, ogni Natale, invitano i cristiani a festeggiare la nascita di Cristo. Celebrano gli anniversari di Maometto e di Mosè. Dice Omar: ‘Noi benediciamo la diversità’. Lo sceicco Ahmed al-Yashrati, bisnipote del fondatore di questo movimento, vive ad Amman. Suo padre fu costretto a fuggire durante la prima guerra arabo-israeliana. Ma, quando morirà, sarà sepolto nel santuario di Akko. Per allora, lo zawyia sarà di nuovo bellissima.

Hamas

In questo viaggio fra Israele/Palestina non ho cercato ‘la politica’. Ho lasciato di lato i grandi temi che arrivano sui giornali del mondo. Ma, come sempre, incontri ‘la politica’ agli angoli delle strade, nella ingiustizia dei check point, nella parole della gente con la quale parli.

A Nablus, nel cuore della West Bank, il sindaco eletto è di Hamas. Era di Hamas: è in galera da mesi. Arrestato dagli israeliani. Nelle elezioni dello scorso anno, Hamas conquistò la maggioranza dei seggi del parlamento palestinese (il 44,55% , poco più di 440mila voti). Fatah, il vecchio partito di Arafat, si fermò al 41,43% (410mila voti). Israele, in pochi mesi, decimò, con gli arresti, il governo di Hamas. Lo scorso giugno, a Gaza è divampata feroce la guerra civile fra Hamas e Fatah. E, ora, il movimento islamico controlla quella stretta striscia di terra. Il presidente palestinese Mohammed Abbas ha destituito il governo di Hamas e cerca di mantenere una parvenza di governo di Fatah in West Bank.  Gaza, invece, è una prigione per un milione e mezzo di palestinesi: il governo israeliano, oggi, ha dichiarato che taglierà acqua e corrente elettrica e impedirà a chiunque di uscire. Per Israele e per gli Stati Uniti, Hamas è ‘una entità nemica’.

E’ certo che non hanno mai parlato con Ibrahim. Un palestinese cattolico. Ha quarant’anni. Un uomo mite, tranquillo, dalle parole pacate e leggere. ‘Ho votato Hamas. Bisognava pur cambiare qualcosa: la Palestina stava affondando nella corruzione e Israele ci nega qualsiasi speranza nel futuro’.  Capita così che un cristiano voti per un movimento islamico.

Farid, invece, è un medico. Un uomo di mezza età. Molto stimato. Buoni studi in Europa. Più che laico. La sua casa è colma di libri. ‘Cos’altro potevi fare? La dirigenza palestinese aveva accettato la sconfitta con Israele. E pensava solo a ingrassare i propri conti in banca. Le trattative con Israele sono sempre state un inganno: ogni giorno occupavano un metro in più della nostra terra e delle nostre vite. Per questo ho votato Hamas’. Un arabo non credente che vota un movimento islamico.

Davanti all’ingresso dell’università di an-Najah, a Nablus, ragazze con il velo, eleganti e gentili, con una sciarpetta verde attorno al collo, distribuiscono volantini di Hamas.  Ci dicono: ‘Dentro il campus ogni propaganda politica è vietata, ma gli studenti ci ascoltano con attenzione’.

Hamas rappresenta il solo appiglio per i palestinesi che non vedono una via di uscita da sessanta anni di sconfitte e che assistono impotenti alla occupazione militare e civile dei loro territori. Hamas è figlio di una frustrazione. Vi è qualcosa, in Palestina e nel Medio Oriente, che noi non riusciamo a capire. Forse è Ayman che mi aiuta a comprendere. Ha quarant’anni. E’ avvocato. Aveva poco meno di venti anni quando lanciava pietre durante la prima Intifada. Mi spiega: ‘Tutti potranno dirti che, prima del 1987, quando divampò la rivolta, si stava bene in Palestina: c’era lavoro, ci si muoveva con più libertà di ora. E poi ti diranno anche che prima della seconda Intifada, successiva al fallimento degli accordi di Oslo, si stava meglio di adesso. E allora gli occidentali non capiscono perché i giovani, allora, si ribellarono. Eppure bastava vivere un giorno in Palestina per comprenderlo: non accettavamo di essere schiavi, non volevamo che il nostro destino fosse deciso dalle concessioni di chi controllava le nostre terre, non potevamo essere umiliati da qualsiasi poliziotto o trattati come invisibili agli occhi degli israeliani. La ribellione è stata una questione di dignità. Per questo riesploderà. Come fai a spiegare a un giovane che le sue libertà minime come muoversi, lavorare, cambiare casa, poter andare a trovare i suoi amici, dipende dal capriccio di un soldato israeliano. Come fai a dire un ragazzo di diciotto anni che ha futuro solo se accetta tutte le regole stabilite dagli israeliani. Come fai a spiegargli che i coloni, che hanno portato la via la terra di suo padre, hanno più diritti di lui?’.

La tragedia è che non ci sono solo più pietre in Palestina. Gli anziani, i mukthar, i saggi di ogni villaggio, non hanno più autorità sui ragazzi. C’è una rabbia sorda nei campi-profughi della West Bank. A Nablus, le mura delle case sono tappezzate delle immagini guerriere dei martiri. Sono giovani, giovanissimi. Si sono fatti fotografare con i loro M16 o con i loro kalhasnikov in mano (e spesso sono le mafie israeliane a contrabbandare armi in Palestina). E poi sono andati a morire.

I bambini di Bethlehem

C’è un ospedale per bambini a Bethlehem. Si chiama Baby Charitas Hospital. E’ gestito da un’associazione svizzero-tedesca. Ha 82 posti letto. Sono bravi, attenti, appassionati. Il Muro (e qui è alto otto metri), che ha trasformato la città, dove è nato Cristo, in un’enclave priva di porte aperte, è a cento metri di distanza dall’ospedale. Sembra chiudere ogni orizzonte, fa sparire il sole prima del suo tramonto.

A volte capita che un bambino non sia riuscito a passare quel Muro per raggiungere Gerusalemme dove avrebbe dovuto essere operato (non c’è un reparto di chirurgia al Baby Charitas Hospital): bisogna avere i permessi, il bambino deve essere accompagnato dai familiari e l’esercito israeliano deve controllare le storie della sua famiglia. Sono le ‘security reasons’. A volte un bambino non ce la fa: la sua malattia non può attendere i tempi dei militari di Israele.

Ma quello che, ancora una volta, più mi colpisce sono i ‘dettagli’ assurdi e gratuiti: nemmeno i medici israeliani (e ve ne sono molti disponibili) possono passare il Muro per venire a visitare i bambini di questo ospedale. Non possono venire a fare corsi di formazione. Semplicemente a loro è negato il diritto di curare chi vorrebbero provare a curare. Allora, a volte, con fatica e spese, vengono medici dall’Italia, dall’Europa a lavorare qui. Un medico israeliano di Gerusalemme, poco più di dieci chilometri di distanza, poco più di cinque euro di taxi, cinquanta centesimi di autobus, non può percorrere quei cento metri dal Muro all’ospedale. Vorrei guardare negli occhi chi ha deciso che ci sono ‘security reasons’ che impediscono di compiere questi cento passi.

I datteri di Gerico

La stagione della raccolta dei datteri sta per finire. I sacchi a rete che hanno avvolto i caschi sono stati quasi tutti svuotati. La fine delle settimane della raccolta coincide con l’inizio di Ramadan: quest’anno i commercianti faranno buoni affari, il digiuno quotidiano, al tramonto, viene interrotto, per tradizione, mangiando un piattino di datteri. Ma i ragazzi che hanno lavorato nella piantagioni sanno che dovranno, ben presto, cercarsi un altro lavoro. Guadagnano 40 shekel al giorno, meno di dieci dollari. I datteri di Gerico sono celebri in Palestina: l’aria e la terra assorbono il sale del mar Morto, ci spiegano, e le piante sono più robuste. La buccia dei datteri rimane attaccata alla polpa. Sono dolcissimi.

La fabbrica di al-Maghts street, una via di campagna di Gerico, appartiene al Fair Trade Department del Palestinian Agricolture Relief Commeetee. I suoi datteri sono i medjoul. I più grandi, i più polposi. Sono considerati i migliori: qui costano almeno 25 shekel al chilo. A Gerusalemme, il loro prezzo può raddoppiare. Questa fabbrica (essicca, fumiga, inscatola) produce solo per l’esportazione: 25 tonnellate all’anno. Solo cinque tonnellate di datteri più piccoli vengono venduti sul mercato locale. I datteri della fabbrica di al-Maghts vanno in Belgio, in Germania, in Inghilterra. In Italia sono acquistati da Ctm. Raggiungono l’Europa attraverso il porto israeliano di Ashdod: fra Palestina e Israele devono varcare almeno due frontiere. Prima il Muro e poi la dogana marittima. A volte, ci spiegano, sono due giorni di viaggio per poco più di cento chilometri di distanza. Mohammed Hmidat è il quality manager del Fair Trade Department. Si vede che non è di Gerico (qui la gente vive, beati loro, al rallentatore): è sempre appeso al suo cellulare, si muove frenetico fra le ragazze che stanno scegliendo (con lentezza) i datteri da inscatolare, contemporaneamente tratta ordini con un cliente e inveisce contro i giordani che stanno tenendo fermo un camion alla frontiera sotto il sole. Glielo chiedo tre volte, ma non riesco a fargli dire il fatturato della fabbrica. Dovrei fare le moltiplicazioni con la produzione. Non ci sono macchine qui: tutto è fatto a mano. Sei ragazzi spostano le casse dei datteri arrivati dalle piantagioni e le poggiano su un lungo tavolo. Dove venti ragazze (una sola senza velo) li selezionano, li inscatolano, pesano le confezioni e, con una penna, scrivono penna la data di scadenza. ‘Faremmo lo stesso lavoro con due semplici macchine, ma vogliamo creare lavoro’, dice Mohammed. Job creation, Mohammed conosce il linguaggio delle organizzazione internazionali. Le ragazze, ci dice, guadagnano, 60 shekel al giorno, circa 14 dollari al giorno, 350 dollari al mese. Nelle due altre fabbriche di Gerico, spiega ancora Mohammed, gli stipendi sono inferiori di 10 shekel.  ‘Noi apparteniamo al Fair Trade: dobbiamo pagare di più’. Poco meno di due dollari e mezzo in più al giorno.

I pomodori di Jenin

Mi racconta, con qualche imbarazzo, un contadino di Jenin: ‘La mia terra non rendeva. Ero deciso a cambiare lavoro. Speravo che fare il manovale mi avrebbe fatto guadagnare di più’. Amici di amici avvicinano il contadino e gli suggeriscono di non lasciare la sua terra. Hanno la soluzione ai suoi problemi: un israeliano gli pagherebbe in anticipo la produzione di pomodori. Il contadino accetta. Coltiva i pomodori. Dopo il raccolto, arrivano le cassette di cartone con le scritte in ebraico. Il contadino le riempie. Ho visto i pomodori di Jenin (mi hanno detto che provenivano da Jenin) in vendita nei mercati locali della Palestina. Mi dicono che raggiungono anche i mercati di Israele. Mi chiedo chi guadagni su questa filiera dei pomodori palestinesi.

Identità/ I cristiani di Gerico

A Gerico vivono cento famiglie cristiane. Cinquecento persone. Forse più. Metà sono greci-ortodossi, metà sono cattolici. La città ha oltre 30mila abitanti. Mi metto a contare le chiese: ci sono i copti (tre chiese e un abuna sorridente e di buon carattere), si sono gli etiopici e gli armeni, gli ortodossi di Romania e quelli di Russia. Tutti preti senza fedeli. Per i  cristiani sembra che sia importante presidiare i luoghi della loro storia: a poca distanza da Gerico, avvenne il battesimo di Cristo (e ci sono almeno tre luoghi dove sarebbe avvennuto); sulla montagna che sovrasta la città, Gesù venne tentato dal demonio (e il monastero che protegge la pietra della tentazione è greco-ortodosso); qui Zaccheo salì sull’albero per guardare Cristo entrare in città (e ci sono due sicomori di Zaccheo). Senza contare che i musulmani hanno deciso che la tomba di Mosè è nascosta fra le colline attorno a Gerico. Per la Bibbia, invece, si trova sul monte Nebo, in Giordania.

Nel refettorio del convento di San Gerasimus, i greci-ortodossi hanno appeso un piccolo quadro che raffigura una sanguinosa rissa fra preti (i greci ortodossi contro i cattolici) per il controllo del Santo Sepolcro. Una monaca mi avvicina e mi dice: ‘Non si stupisca: amore e verità devono andare assieme. Non basta l’amore da solo. Né la verità da sola. Che Dio ti benedica’. Non credo di aver capito bene. E non so cosa pensare delle tante chiese cristiane di Gerico.

Identità/ Cristiani

Ayman sorride, ma non nasconde una certa, piccola rabbia di fondo. ‘Io sono di  Bethlehem. Gesù è nato qui. Sono cristiano. E devo sentirmi chiedere da un turisti: ‘Quando ti sei convertito?’. Come spiegare che è lui, che viene dalla Svezia, che si è convertito?’.

Identità/ Musulmani

Hanno chiuso i check point di Ramallah e di Bethelem. I palestinesi musulmani, anche coloro che hanno i permessi, non sono potuti venire a Gerusalemme per la preghiere del venerdì di Ramadan.

Identità/ Ebrei

E’ cominciato Yom Kippur, il giorno dell’Espiazione. Il credente ebreo digiuna e invoca il perdono per le colpe commesse.  Il 65% degli israeliani che hanno risposto a un sondaggio del Jerusalem Post ha dichiarato che non digiunerà. Questo è un paese, a maggioranza, laico.

Yom Kippur e il secondo venerdì di Ramadan, quest’anno hanno coinciso. Gerusalemme si è spezzata più di quanto non lo sia abitualmente. Si chiudono le strade di Gerusalemme Ovest. In Israele si fermano le auto, i treni, nessun aereo decollerà. Gli ebrei ortodossi minacciano di prendere a sassate che si muove in macchina. A Gerusalemme la polizia di frontiera, armata di M16, controlla i luoghi di contatto fra i quartiere arabi e musulmani. I Territori Palestinesi sono stati chiusi: nessun arabo può uscire. Israele/Palestina, per le sue feste più sacre, è spezzato secondo una linea etnico-religiosa.

 Identità/I Drusi

Minoranza fra decine di minoranze. Minoranza guerriera, i drusi. Popolo arabo. Professano una religione esoterica, misteriosa, inaccessibile a chi non sia nato druso. E’ un sincretismo fra islam e filosofie orientali. Credono nella reincarnazione. Mi dicono che non hanno cimiteri. E che si considerano un popolo di soldati. Hanno preteso, loro, di origine araba, di potersi arruolare nell’esercito israeliano. Il loro mestiere è la carriera militare. Nelle loro case sono appese onorificenze e riconoscimenti dello stato di Israele. Nel villaggio druso di Daliyat el-Karmel, alle porte di Haifa, vi è il sacrario dei caduti drusi sotto le bandiere di Israele: sono 147 uomini, gli unici di cui si possano vedere le foto dopo la loro morte (se le anime si reincarnano, non possono esserci fotografie di chi è passato da un corpo all’altro). I drusi hanno un forte potere politico. Sono considerati ricchi. Sono 30mila famiglie, disseminate in sedici villaggi fra le montagne della Galilea. Ma altri cinque villaggi drusi sono sul Golan: Israele ha annesso questa terra (annessione mai riconosciuta dalle Nazioni Unite) alcuni anni dopo la guerra del 1967. I drusi di questi villaggi non possono fare i soldati di Israele.

Identità/Gli abitanti di Gerusalemme Est

Osama cerca di spiegarmi chi è. E’ così complicato che devo prendere appunti. La sua famiglia, nel 1948, fu scacciata da un villaggio alle porte di Gerusalemme e trovò rifugio nella parte orientale della città. Non nacque uno stato palestinese: Gerusalemme Est, come tutta la riva occidentale del Giordano, divenne Cisgiordania, provincia del regno hashemita di Giordania.

Nel 1967, Israele conquistò questa terra e tutta la città santa. Oggi Osama è un palestinese che non può essere cittadino di Palestina. Ha un documento di identità israeliano, ma non è cittadino di Israele. Non può votare per la Knesseth (ma per la municipalità di Gerusalemme, sì). Osama è ancora di nazionalità giordana. Così sta scritto sul suo lasciapassare israeliano quando vuole uscire dal paese. Non potrebbe nemmeno andare in Palestina: viola leggi israeliane ogni volta che lo fa.

Osama è un profugo, figlio di profughi. Un giorno, poco meno di quarant’anni fa, suo nonno volle tornare alla casa al villaggio. Vi viveva un israeliano. L’uomo si accorse del vecchio che stava davanti al giardino. Capì subito di chi si trattava. Uscì di casa e disse: ‘Questa era la tua casa. Ora è la mia’. E voltò le spalle al vecchio per chiudersi la porta alle spalle. Il nonno di Osama non è mai più voluto tornare a vedere la sua vecchia casa.

 

Identità/ I Kibbutzim

E’ l’epopea di Israele, il suo mito e la sua leggenda. I padri (e le madri) dello stato di Israele hanno vissuto nei kibbutz. Ben Gurion e Golda Meir sono figli della cultura del kibbutz.

Ho conosciuto due anziani ebrei che venivano dall’Est europeo: erano stalinisti e vennero in Israele per continuare la loro rivoluzione. Andarono a vivere in un kibbutz. Era il comunismo realizzato: a ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue capacità. Ogni bene, compreso i figli, era in comune. La coppia di ebrei cessò di credere nel comunismo dopo le persecuzioni antiebraiche di Stalin.

Ho conosciuto Haim. Un sionista cubano. Aveva vissuto da giovanissimo la rivoluzione di Fidel e del Che. Nel 1960 decise che bisogna andava a fare la rivoluzione anche in Israele: con cinquecento ebrei cubani venne in questo Medioriente. Per 35 anni ha vissuto in un kibbutz. Suo figlio continua a vivere in un kibbutz urbano, una sorta di comune rivoluzionaria.

‘Ma quando è troppo, è troppo’, mi dice Gilad, uomo cresciuto in un kibbutz. Finiti gli anni della leggenda, venti anni fa, la società dei kibbutz cominciò a scricchiolare. I governi laburisti di Israele cercarono di tenerli in vita. I governi di destra, invece, hanno preferito investire nei settlement nei Territori Palestinesi. ‘A un certo punto, meno di dieci anni fa, i nostri ‘salari’ erano inferiori a 150 shekel, meno di quaranta dollari al mese’, ricorda Gilad.

I kibbutz, nel 2000, vennero privatizzati. Dovevano diventare aziende, dovevano produrre utili se volevano sopravvivere. Molti kibbutz, soprattutto in Galilea, nel Nord di Israele, si trasformarono in eleganti agriturismi. Vengono chiamati manager esterni a dirigerli. Altri provarono a resistere: i principi della collettivizzazione erano intoccabili.

Ma oggi i kibbutz stanno vivendo una terza stagione: se i figli dei pionieri volevano fuggire, ora molte giovani coppie vogliono venire a vivere nei kibbutz privatizzati. Si possono comprare una casa. E’ una sorta di ritorno in campagna di gente stanca delle frenetiche città israeliane.

Mi dicono che circa 70mila persone oggi vivono nei 257 kibbutzim di Israele. Non so se sia vero. Ma so che non ci vive più la coppia di anziani ebrei. E anche Haim si è arreso e sogna un viaggio della nostalgia a Cuba. Ma Gilad, no: lui vive bene nel suo kibbutz. Haim mi dice: ‘Un 40% di kibbutzim sono rimasti ‘socialisti’, non hanno abbandonato la collettivizzazione delle loro vite. Il 30% ha scelto la via dell’azienda capitalista: sono quasi una cooperativa. Altri stanno nel mezzo’.

Il lavoro dei palestinesi

Alcuni uomini siedono lungo il marciapiede. Hanno occhi di sonno e la barba ispida di qualche giorno. Le braccia cercano di sorreggere la testa. Qualcuno fuma una sigaretta dopo l’altra. Stanno in silenzio. Davanti a loro un martello, un secchio, uno scalpello. Vengono dalla Palestina. Dai villaggi attorno a Tul Karem. Ma qui, prime ore del giorno, siamo in una città israeliana. Una città arabo-israeliana. Questi uomini si offrono come manovali, come muratori clandestini a chi si sta costruendo una casa o a piccoli padroncini senza molti scrupoli. E’ mano d’opera a basso, bassissimo costo.

Questi uomini, mi raccontano, hanno camminato per ore: ‘Sono venuti stanotte dalla montagna’. Hanno attraverso campi di olivi. Conoscono vecchi sentieri e sanno dove passare: sono figli dei contadini che, per secoli, hanno coltivato le ultime colline dei Territori Palestinesi. Forse cinque anni fa, prima del Muro, avevano un lavoro legale in Israele. Dal anni, oramai, la ‘barriera difensiva’, come gli israeliani chiamano il Muro, li ha rinchiusi dentro i villaggi della loro terra. Non hanno più l’autorizzazione a entrare in Israele. Molti di loro, i più giovani, non potrebbero lasciare nemmeno il loro villaggio o il loro paese. Ma hanno famiglie da sfamare. Figli da crescere. Per questo, ogni notte, camminano nel buio della notte con i loro scalpelli e i loro secchi.

Chi conosce i sentieri, sa anche che il Muro può essere aggirato, scavalcato, superato. Devi solo fare molti chilometri, devi aggiungere fatica alla fatica, devi sapere dove sono i varchi. L’esercito israeliano, così efficiente e onnipresente, sa benissimo cosa accade ogni notte fra gli olivi attorno al Muro. Ma questo è il teatro dell’assurdo e della ferocia di questa terra: i manovali senza lavoro, chiusi dai check-point, passano da clandestini quell’ostacolo di rete e cemento che si vuole invalicabile. A volte, qui, hai la sensazione che il Muro sia dovunque. Te lo trovi davanti, alle spalle, di fianco: te ne sei allontanato qualche chilometro fa e lo ritrovi in fronte ai tuoi passi appena aggirata una collina. Ma gli uomini della notte passano ugualmente. Sono troppo utili all’economia sommersa di Israele. ‘Il loro lavoro costa poco – mi dice un palestinese-israeliano – Io sto costruendomi una casa. A volte ne prendo qualcuno. Ma ho paura: se mi scoprono, dovrei pagare multe troppo care’. Questa appare la sua unica preoccupazione. I padroncini hanno meno pensieri: per loro questi uomini stanchi sono braccia a buon mercato. Si può correre il rischio.  Il camioncino avanza con lentezza, un uomo guarda dal finestrino i manovali. Ha il gomito appoggiato al finestrino. Rallenta, quasi si ferma. Uno dei palestinesi si scuote dal suo torpore, si alza, si avvicina alla macchina. Bastano due parole. Un gesto. Altri uomini si alzano. Due, tre. Forse è un lavoro per  due o tre giorni.

 Israele sostiene, cronache e statistiche alla mano, che la ‘barriera difensiva’ ha fermato gli attentati che, per mesi e mesi, avevano insanguinato le sue città. 

Il monte dei Samaritani

Le acque del diluvio universale risparmiarono solo la vetta del monte Gerizim.  Adamo fu modellato con la terra di questa montagna. E sempre qui Abramo voleva sacrificare Isacco. Mosè vi ricevette i Dieci Comandamenti da Dio. Almeno questo credono i Samaritani, settecentosedici persone (due gemelle sono appena nate e, inch’allah, sono femmine) discendenti dell’unica comunità ebraica che mai ha lasciato la terra di Palestina. La loro fede, oggi, ha molte differenze con l’ebraismo. Vivono sulla cima di questa montagna e in sobborgo della periferia di Tel Aviv.

Ai piedi del monte Gerezim, i romani, duemila anni fa, fondarono Flavia Neapolis, la città destinata a diventare Nablus. Fino agli anni dell’Intifida e alla controffensiva israeliana, i Samaritani hanno vissuto fra i vicoli della città vecchia. Ora si sono costruiti un moderno villaggio sulla loro montagna: troppo pericoloso rimanere a Nablus, città troppo ribelle. Troppo massiccio l’accerchiamento israeliano, troppo frequenti le incursioni dentro la città vecchia. E troppo singolare la situazione dei Samaritani: hanno documenti israeliani e palestinesi, sono eredi dell’ebraismo, ma non si sentono ebrei, si sposano solo fra di loro, le loro macchine hanno la targa gialla di Israele. Oggi un check point israeliano divide le ultime case di Nablus dal villaggio dei Samaritani.

Dalla vetta del monte Gerizim il panorama sulla vallata di Nablus è spettacolare. Le colline della sono sassose e bellissime. Ma, se dall’alto di questa montagna, si ruota lo sguardo, il paesaggio attorno è la sintesi della follia che dilaga fra queste colline. Nella valle dilaga la periferia di Nablus: in realtà il monte Gerizim sovrasta il campo profughi di Balata, il più grande della West Bank. Nel 1950, dopo la prima guerra arabo-israeliana, qui trovarono rifugio i profughi di 69 villaggi della regione di Jaffa, Lydd e Ramleh. Oggi vi vivono almeno ventimila persone. E, quasi ogni notte, l’esercito israeliano irrompe nei budelli dei suoi vicoli: qui, nelle ore del buio, si combatte la guerra non dichiarata fra Israele e palestinesi. Postazioni militari israeliane occupano i confini della spianata del monte Gerizim. Una caserma domina la vallata dall’alto del contrapposto monte Ebal. Le sue antenne sono l’orizzonte notturno di Nablus.  A un passo dal villaggio dei Samaritani decine di case con il tetto di tegole sono allineate come un paese di Legoland: è l’insediamento ebraico di Har Bracha, unsettlement, una delle colonie israeliane in West Bank.

Giriamo ancora gli occhi: alla stessa altezza della postazione militare israeliana, cinquecento metri dal villaggio samaritano, appare una inverosimile villa palladiana. Non crediamo ai nostri occhi. Poi ci raccontano che Munib al-Masri è uno dei cinque uomini più ricchi del Medioriente. La sua famiglia è di Nablus. Lui ha finanziato l’università della città e la borsa della Palestina (che ha sede a Nablus. Vi sono quotate una trentina di società). Al-Masri ha davvero voluto costruire, nel cuore di una terra lacerata, la copia di un palazzo veneto di Palladio sulla cima del monte Gerizim. Questa è la Terra Santa: a Nablus un prete greco-ortodosso ha eretto, praticamente da solo, una basilica attorno al pozzo di Giacobbe. Ci ha impiegato trent’anni. Un magnate palestinese, invece, ha costruito il suo monumento privato. Al sabato, i samaritani, gente scorbutica nonostante la parabola evangelica, indossano una veste bianca e rimangono in perfetto silenzio per un’intera giornata. I coloni ebraici sono orgogliosi del loro settlement in terra palestinese. Due soldati di Israele bivaccano, con aria annoiata, al check point di Gerezim. I figli dei profughi della Palestina del 1948 tirano avanti fra povertà e guerra notturna nel campo di Balata. Di giorno Nablus è una lenta e bella città araba. Ogni notte si spara fra le sue strade. La sabbia di questa montagna ha davvero dato vita al primo uomo? Dio avrebbe potuto utilizzarla per uno scopo migliore.

Il varco di Eprhaim

Guardo Mario camminare nel grande spiazzo deserto. Ha lasciato ai miei piedi la borsa con la macchina fotografica. ‘No bag’, hanno gridato, con un altoparlante, da dietro la torretta. ‘Only one’, hanno aggiunto. Io ero un passo indietro, mi sono fermato. Mario è andato avanti. Cammina nel sole e l’onda di caldo fa traballare l’orizzonte del Muro. I confini di Tul Karem, città palestinese, sono questa muraglia di lastroni di cemento armato grigio alti almeno quattro metri. Una frontiera artificiale che corre, con qualche sbandamento, lungo la vecchia Linea Verde. A sentire i palestinesi, il nuovo confine di cemento, qui, si è impossessato ancor più del loro territorio, ma solo perché hanno voluto costruirvi una velenosa fabbrica di fertilizzanti. A Tul Karem dicono che emette fumi pestilenziale e che le ciminiere sono in funzione solo quando il vento spira verso la Palestina. Vi lavorano operai palestinesi: possono entrarvi solo attraverso una porta di ferro aperta nel Muro. Le loro macchine sono parcheggiate sotto i blocchi di cemento.

Prima del Muro, la strada che costeggiava la Linea Verde era colma di vita. Gli israeliani venivano qui a comprare nei negozi palestinesi verdure, frutta e pezzi di ricambio per le macchine. I palestinesi passavano di qui per andare a lavorare in Israele. Il Muro ha creato un deserto. Il varco di Eprhaim è un grande cancello sorvegliato da soldati armati. Filo spinato, garitte, passaggi blindati. Da qui passano merci fra Israele e Palestina.

Andiamo a vedere. Un paio di camion sono in attesa. Giriamo per il piazzale. Siamo a cinquecento metri di distanza dal cancello. Abbiamo le macchine fotografiche. Troppo sfrontati, forse. L’altoparlante urla all’improvviso. Un ragazzino arabo ci grida dietro. Non capiamo. ‘Vogliono voi’, ci dice un autista rassegnato. Esitazione. Facciamo per tornare verso la nostra macchina. ‘Non lo fate. Andate da loro. E’ meglio. Non accadrà niente’.

Guardo Mario camminare nel grande spiazzo deserto. Con qualche batticuore. Il sole mi acceca. Intravedo Mario davanti a un soldato. Poi arriva un uomo senza divisa, ma armato. Parlano. Decido di avvicinarmi. Arrivo a dieci passi. L’uomo mi fa un cenno. Poi mi chiede che cosa abbiamo fatto ieri. La domanda mi sorprende. Non rispondo, tiro fuori dalla tasca la lettera di accredito degli israeliani (spero di non sbagliare: da qualche parte ho anche quella dei palestinesi) e gliela porgo. L’uomo legge. La ripiega. Dice: ‘Voglio credervi. Ma non fatevi più vedere da queste parti’. Gli do la mano. Adesso tocca a lui essere sorpreso. Ce ne andiamo. Riattraversiamo lo spiazzo deserto. Gli autisti arabi non dicono nulla. Un uomo ci chiama da una botteguccia mezza cadente. Ci offre il tè.

 Leggere il Jerusalem Post al Fattush

Che paese è questo? Che paese è Israele/Palestina? Ieri, racconta il Jerusalem Post (taglio medio di prima pagina, nemmeno la notizia più importante), tre bambini palestinesi, fra i dieci e i dodici anni, sono stati uccisi da colpi sparati da un carroarmato israeliano a Gaza. ‘Stavamo cercando di impedire il lancio di missili kassam’, è la versione ufficiale dell’esercito di Tel Aviv. Sicuramente vera. I bambini sono dovunque nelle strade delle città palestinesi, sono loro le prime vittime dei combattimenti. A Kalkiliya, ai confini con il Muro, soldati israeliani hanno cercato di arrestare un ricercato palestinese: trentuno arabi feriti ‘leggermente’. Due giorni fa, un altro bambino era stato ucciso a Jenin, nella West Bank, durante uno scontro a fuoco fra soldati e militanti della Jihad Islamica (notizia di terza pagina). Quello stesso giorno, quattro palestinesi armati hanno scavalcato il Muro, alto otto metri, a Gaza e hanno assalito un check point dell’esercito. Sono stati tutti uccisi (cinque soldati israeliani feriti). Era shabbat, giorno di festa in Israele. In quella stessa notte, sulle strade della Galilea sono morte sei persone. Eccesso di velocità (notizia di apertura). A Jenin, nel nord della West Bank, un maggiore dell’esercito israeliano sbaglia strada e finisce nel campo profughi (una città, in realtà), rischia di essere linciato e viene salvato dalla polizia palestinese. Il giorno dopo, una corte militare lo condanna a 28 giorni di prigione per non aver rispettato le previste misure di sicurezza.

Il governo palestinese di Fatah ha deciso di vietare le attività di 103 associazioni caritatevoli islamiche: sospettano che siano un’emanazione di Hamas. E l’autorità palestinese è intenzionata a chiedere la riapertura della propria sede a Gerusalemme prima della conferenza internazionale sulla questione palestinese fissata per novembre.

Leggo il giornale, lo richiudo, lo appoggio sul tavolo, guardo la gente che passa di fronte al Fattush, elegante locale arabo sulla German Colony di Haifa, la strada della vita notturna della città. Si sta bene al Fattush.  Guardo le belle ragazze etiopi che siedono vicino a me, ascolto il suono ritmato delle chiacchiere in arabo del gruppo di donne che sono alle mie spalle, osservo due russi dalla grande pancia che ordinano l’ennesima birra. Un ragazzo e una ragazza,  ebrei, giovanissimi, si guardano con tenerezza a un tavolo poco più lontano. Che paese è questo? Un mio amico sta arrivando a Tel Aviv. Vuole andare a Nablus, in West Bank. A Nablus, ogni notte, si svolge il pericoloso teatro della guerra a bassa intensità fra israeliani e palestinesi. Lui ci va perché vuole vedere la città. Gli ho detto che è bellissima. Un taxi palestinese (targa verde) partirà dal Yasmeen hotel nella città vecchia, attraverserà il Muro e andrà ad aspettarlo all’aeroporto. Per 50 euro. Prezzo più che ragionevole per quasi due ore di viaggio. E almeno tre check point da superare, se l’autista è bravo e conosce la geografia dei più tranquilli. Che paese è questo? Seduto ai piacevoli tavoli del Fattush mangiando humus, se non leggessi il Jerusalem Post, che cosa saprei di Israele/Palestina? Tutto o niente? E ora che ho letto, cosa so?

Venerdì notte ad Haifa

La notte del venerdì, shabbat è cominciato da ore, è per gli infedeli. I russi invadono la German Colony, la strada dei pub, dei bar, dei ristoranti di Haifa. E’ come se Mosca si fosse trasferita sulle sponde del Mediterraneo. Per ballare al Milagro, dance-bar vigilato da immensi guardiani, bisogna conoscere il russo e apprezzare le grandi pance. Gli occhi dei ragazzini arabi guardano, con avidità, le donne ballare. Famiglie arabe del vicino quartiere di wadi nisnas, territorio arabo sopravvissuto alla fuga del 1948, vengono sulla German Colony a passeggiare. Donne velate (pochissime: si contano sulle dita di due mani) mangiano ricche insalate al Fattoush, ristorante apprezzato della comunità araba. La notte di Haifa appare da follia per noi che arriviamo dalla Territori Palestinesi. Siamo a poche decine di chilometri da Jenin e questo è un altro mondo. Al mercato di Talpiot, affollato al venerdì, i prezzi sono scritti prima in russo e poi in ebraico. I russi hanno cominciato ad arrivare dopo il crollo del Muro di Berlino. Ora sono almeno 60mila. In una città di 300mila abitanti. Quasi il doppio degli arabi: che sono 38mila e 23mila sono arabi cristiani.

Città-disneyland, se la guardi in una notte d’estate, Haifa. La German Colony potrebbe essere una strada di Rimini. Città strana, Haifa. Ti dicono della sua tolleranza: gomito a gomito qui vivono musulmani e sette eretiche dell’Islam, drusi e cristiani di ogni fede (maroniti, cattolici, greco-latini, greco-ortodossi, anglicani), i bahai hanno perfino cambiato, con il loro tempio, il paesaggio della città. Storia dell’ambiguità la loro: hanno cominciato a costruire il luogo più sacro della loro religione nel 1949, un anno dopo la cacciata degli arabi da Haifa. Oggi sono un’attrazione turistica di cui l’ufficio del turismo di Haifa va orgoglioso. Questa mattina, in visita ai giardini Bahai, c’erano gruppi di famiglie arabe di Gerusalemme Est e ragazzini falasha, figli degli ebrei etiopici arrivati qua una ventina di anni fa.

Haifa è lontana dalla guerra a bassa intensità che si combatte nei territori. E’ gaudente e spavalda. Il primo sindaco della città dopo il 1948 era un arabo. Ma gli urbanisti di Israele, sessanta anni fa, dopo la prima guerra arabo-israeliana, hanno voluto cancellare la memoria dei palestinesi: in tre mesi le ruspe israeliane demolirono la Città Vecchia. Non doveva esserci una casa dove tornare per i palestinesi che erano fuggiti. Nei campi profughi del Libano, i figli di chi se ne andò in quei giorni hanno le foto delle antiche case. Nessuno di loro rivedrà mai Haifa. Nessuno di loro si godrà il vento caldo di scirocco che regala sudore ed eccitazione ai russi che ballano all’aperto al Milagro.

La paura

Andrea, prete arabo, di rito greco cattolico, è giovane e sorridente. Dice: ‘Sono stato a visitare i campi di concentramento dei nazisti. Devi andare là se vuoi capire le fondamenta di Israele. Gli ebrei hanno paura che la storia possa ripetersi. Sono ossessionati dalla sicurezza. Ogni loro gesto ha come ragione questa paura onnipresente. I capi di Israele spiegano ogni loro decisione con la difesa del loro stato. E quando il presidente dell’Iran si augura la scomparsa di Israele, loro sono rassicurati nella loro paura. Dicono al mondo: avete visto, ci vogliono ancora distruggere.

Moni è ebreo. Avrà quarant’anni. E’ un attore, un regista, un produttore di teatro. Lavora assieme con registi e attori arabi. Dice: ‘A volte ho la sensazione che solo la cultura, il teatro, la musica, il cinema possano salvare questo paese. Viviamo con la paranoia del nemico. Con addosso la paura.  Dovremmo scrollarcela dalle spalle, smetterla di vedere nemici negli occhi di chiunque ci guardi. Ma non ci riusciamo’.

A questo punto devo raccontarvi di Zipi.

Zipi

Abbiamo vissuto a casa di Zipi una settimana. Lei ha 58 anni. E’ una ebra rumena. Arrivata in Israele quando aveva otto anni. E’ stata poliziotta. Non conosce l’arabo. Vive in un quartiere di soli ebrei. Ha due figli grandi. Affitta le camere della sua grande casa ai turisti. Un bed & breakfast familiare ad Akko,  tranquilla città del Nord di Israele.

Zipi non legge i giornali, non ascolta i telegiornali. Ma al mattino controlla via internet l’andamento della borsa. ‘E’ eccitante giocare qualche soldo. Qualche volta perdo, altre volte guadagno’. Zipi non è religiosa: durante lo Yom Kippur, fra meno dieci giorni, mangerà, invece di digiunare. Il figlio maschio di Zipi, lunghi capelli rasta, l’anno prossimo dovrà andare militare. Tre anni di leva. La figlia maggiore ha appena finito i suoi due anni. Ora lavora come guardia notturna: sorveglia una scuola. ‘Il militare fa bene a questi ragazzi – dice Zipi – Partono che sono bambini e tornano che sono uomini e donne. E, poi, così, mia figlia ha avuto un buon addestramento e ha trovato un buon lavoro: vi è bisogno di sicurezza in Israele’. Zipi non nasconde la sua paura: ‘Possono scoppiare bombe ovunque. Non possiamo permetterci distrazioni. Dobbiamo essere pronti e attenti’. Eppure Akko appare lontana dalle tensioni che si avvertono nell’aria di Gerusalemme o dalla netta, inconciliabile separazione fra ebrei ed arabi delle città del Sud del paese. ‘Ma il pericolo è anche qui – è sicura Zipi – e sono certa che ad Akko non ci sono attentati perché gli arabi temono che la popolazione si vendicherebbe su di loro. Solo per questo hanno risparmiato questa città’.

E’ questa la paura di Israele?

L’anno prossimo, dice Hailè

Capita che mi trovi a parlare in spagnolo con Hailè, un uomo d’Etiopia in un malandato caseggiato popolare di Nawe Gannim, periferia di Haifa, un passo dalle raffinerie della città. I condomini sono decrepiti, stile realismo socialista. Per strada, giocano ragazzini neri e qualche bambino russo. Hanno aria da malandrini. Vecchi etiopici siedono, immobili, in uno slargo che non è una piazza. Stanno in silenzio, le mani appoggiate su un bastone. Mi sembra di essere a Gondar, nel cuore dell’Etiopia. Questa gente è (o hanno detto di essere, e sono stati creduti) di essere falasha, ebrei etiopici. Sono arrivati qua a scaglioni. I primi arrivarono, grazie a un esodo spettacolare e drammatico organizzato dal mossad, i servizi segreti israeliani, nei primi anni ’80. La madre di Sennait, invece, arrivò nel 1991, quando cadde la dittatura di Menghistu. Un ponte aereo che sbarcò in Israele migliaia di falasha. Sennait è la moglie di Haile. Haile parla spagnolo perché ha vissuto anni a Cuba. Suo padre era un ufficiale dell’esercito di Menghistu e i rapporti fra i due paesi comunisti era eccellenti. Hailè andò a Cuba a studiare legge. Non è più tornato in Etiopia. Seppero che la mamma di Sennait era riuscita ad arrivare in Israele. Vennero anche loro. Nel 1993. Se la madre di Sennait era ebrea, anche la figlia lo era. Qui è nato il loro figlio. E’ stato chiamato Israel. Ma non è stata una decisione dei suoi genitori. I nomi etiopici dovevano diventare nomi israeliani. Sono 130mila i falasha in Israele. Mangiano zighinì e hanno televisioni perennemente collegate ai canali di Addis Abeba. I vecchi dicono che se ne vogliono tornare nei loro villaggi del più grande altopiano africano. Non lo faranno. I figli dei figli cominciano a ritagliarsi qualche spazio nella società israeliana. Ma stanno ai margini. Fanno i lavori più umili. Sono poveri. Hailè, dopo quattordici anni, non è ancora riuscito a far valere la sua laurea. Sennait non può fare la dentista (per questa professione aveva studiato a Cuba): non ha ancora superato gli esami del suo nuovo/vecchio paese. Ad Haifa tutti mi hanno spiegato che la convivenza fra arabi, ebrei, russi, cristiani, musulmani è davvero possibile. Nel condominio di Hailè, fra poveri, non è facile vivere gomito a gomito fra ucraini (al piano di sotto), indiani (casa accanto), russi (stanno di sopra). Hailè è certo: ‘Se fossi tornato in Etiopia, come avvocato sarei un re’. Mette sul tavolo coca-cola e frutta. Haile dice: ‘Se l’anno prossimo, non cambia qualcosa torneremo ad Addis Abeba’. Non so quanti anni abbia Haile: non deve mancare molto ai cinquanta anni. Nella stanza accanto, Israel gioca con la playstation. ‘Non lo facciamo uscire in strada. Gira troppa droga da queste parti’.

Soldato israeliano, palestinese ribelle

Ieri siamo tornati a Nablus. La città era presa dalla frenesia del Ramadan. La gente si accalcava attorno ai venditori di dolci e di falafel. Gli uomini andavano via con un sacchettino di prelibatezze da aprire a casa non appena il muezzin griderà la fine del digiuno. Siamo andati via lasciandoci alle spalle una città festosa. Ma, nella notte, i soldati israeliani sono entrati nel campo-profughi (periferia malandata della città) di Ein Beit. Ed è stata battaglia. Una guerra vera. E’ morto Mohammed, un ragazzo palestinese di 17 anni, militante del Fronte Popolare. E’ morto un soldato israeliano: le agenzie non dicono la sua identità, né la sua età. Avrà avuto pochi anni più di Mohammed. I palestinesi, come da tradizione musulmana, hanno subito celebrato il funerale guerriero del loro caduto.

Appena ho saputo ho telefonato a un amico di Nablus: era a fare la spesa al mercato. ‘Sì, ci sono i carriarmati e ho visto anche i bulldozer. Staranno demolendo qualche casa. Ma la vita va avanti come al solito. Non ti preoccupare’. Questa è la normalità di una guerra che sarà anche a bassa intensità, ma lascia corpi di ragazzi sulla strada.

Le lenzuola di Israele

Nel grande stanzone, illuminato dalla luce del sole, mani di uomini e di donne velate tagliano, cuciono, rammendano, stirano, impacchettano senza un solo attimo di pauso. Il ronzio delle macchine da cucire è il sottofondo sonoro della nostra visita una fabbrica tessile palestinese di Der al-Ghusun, villaggio di campagna, colline ad olivi di Tul Karem, pochi chilometri di distanza dal Muro. Qui si producono lenzuoli. Qui lavorano duecento operai. Una paga mensile buona, a sentire i proprietari. 60 shekel al giorno per le donne, 80-90 per gli uomini. Poco più di dieci euro per le donne, quasi quattordici per gli uomini. Lo stipendio minimo nei Territori Palestinesi è ben sotto i 10 euro al giorno. Tul Karem ha una tradizione di industria tessile. Vi sono almeno cinque fabbriche con oltre cento operai e decine di laboratori familiari. La costruzione del Muro, dicono i palestinesi, ha messo in ginocchio questa economia. Il mercato del tessile è Israele.

Un grande camion si infila nel piazzale della fabbrica. Ha la targa gialla: è israeliano. Trasporta grandi scampoli di tessuto. A Der el-Ghusun si lavora per committenze israeliane. Il Muro rende tutto più complicato, ma le regole dell’economia sono più forti della guerra a bassa intensità. Gli affari si fanno nonostante le tensioni. La Kitan, potente gruppo tessile israeliano, acquista cotone in Egitto e rifornisce di materiale grezzo le fabbriche palestinesi. Le donne e gli uomini di Der el-Ghusun cuciono eleganti e raffinate lenzuola, federe, sovraccoperte, corredi per il letto. Le loro mani sono abili, veloci, esperte. Lavorano sotto disegni di cuori, manifesti di cartoni animati, versetti del Corano.

Il camion israeliano scarica i rotoli di tessuti e carica scatoloni di lenzuola già preparati. La Kitan paga sette shekel a confezione. Un euro e mezzo a pacco. Il camion riparte. Fra qualche giorno, le lenzuola riappariranno in un negozio di New York. E costeranno 149 dollari. Sulla scatola sarà stato stampigliato made in Israel. Non conosco le regole dell’ebraismo ortodosso, ma immagino che chi comprerà quelle lenzuola si senta garantito: comprando quelle lenzuola ha acquistato non solo un buon prodotto, ma ha sostenuto l’economia di Tel Aviv. Sono state mani palestinesi e musulmane a cucire quelle lenzuola. Al di là del Muro.

L’ultimo sarto di Akko

Queste poche righe hanno un retropensiero maligno. La vecchia Akko, chiusa nelle sue mura turche, è magnifica. E’ un dedalo di vicoli, strade medioevali, confusione di moschee e chiese. E’ una città araba cresciuta sulle spettacolari rovine sotterranee di una città crociata. Nessuno sa quanti abitanti vivano fra le sue antiche mura: forse quattromila, forse dodicimila, a sentire le diverse, improbabile statistiche.

La nuova Akko è cresciuta, negli anni ’60, fuori dal poligono delle mura. Oggi la città ha oltre cinquantamila abitanti, diciassettemila sono arabi. Nel 1947, il vecchio piano di spartizione di questa terra delle Nazioni Unite assegnava Akko alla Palestina. Uno stato che non è mai nato.

Nel 1948, durante la prima guerra arabo-israeliana, quasi tutti gli abitanti palestinesi della vecchia Akko fuggirono in Libano. Quasi dieci anni dopo, le loro case, abbandonate e cadenti, vennero occupate dagli ebrei più poveri: arrivavano dal Nordafrica e dall’Est europeo. Erano marocchini, egiziani, tunisini, rumeni, polacchi. Vissero qui pochi anni: le case erano troppo malandate perfino per loro. Appena poterono si costruirono una casa nella città che stava nascendo oltre le mura. Lentamente, allora, vennero altri arabi: erano famiglie che migravano dai villaggi della Galilea. Oggi sono i loro figli ad abitare le antiche case di Akko. Nessuna famiglia ebrea vive in città vecchia. Sono gli esodi e i controesodi di questa terra.

Nel 1993, Israele decise che il futuro di Akko, città povera, ai margini dell’economia del paese, rivale sconfitta dalla ricchezza della vicina Haifa, era nel turismo. Si avviarono, così, imponenti progetti di restauro degli antichi palazzi turchi, si finanziarono grandiosi scavi archeologici della città crociata, si chiamarono architetti, conservazionisti, progettisti, si pensò di costruire alberghi per centinaia e centinaia di posti letto. Si pianificarono investimenti colossali. Si creò un’apposita società per la ricostruzione dell’antica Akko.

Mi dice un prete cattolico: ‘Ma questo turismo cancellerà la vera Akko. Il governo israeliano vuole una bella scenografia, vuole la bellezza di una città araba senza la sua anima. Non ama gli abitanti della città vecchia. I grandi alberghi fra i nostri vicoli saranno la fine della città’.

L’ultimo sarto di Akko è sicuramente un comunista malinconico. Ha fotografie di Chavez ed Arafat in vetrina. Ha immagini che raccontano di una Palestina sconfitta. Racconta: ‘Vogliono fare di Akko un museo, una galleria d’arte. E’ già accaduto: vada a Yaafa (Yafo per gli israeliani) e si guardi attorno: vedrà una bellissima e linda città araba, ma non vedrà nemmeno una traccia della nostra vita. E’ rimasto il guscio di una città senza l’andirivieni dei suoi abitanti’.

La bottega dell’ultimo sarto di Akko è a un passo dall’immenso caravanserraglio dei Pilastri, il khan al-Omdan. E’ un edificio splendido con un doppio porticato sovrammesso: nei progetti della Old Akko Development Company diventerà un grande albergo. Il padre dell’ultimo sarto ha lavorato in questa minuscola bottega per oltre mezzo secolo. Il figlio taglia e cuce da trentacinque anni. Ha un gesto di tenerezza verso la piccola nipote che scompare, saltellando, fra i vicoli. Io ammiro la bellezza degli scavi della città crociata, mi appassiono per l’antico hamman trasformato in affascinante museo multimediale, ma penso anche che sarebbe stato saggio riaprirlo. Mi dicono che era impossibile. Conosco un intelligente e spregiudicato uomo d’affari ebreo: ha comprato la più bella casa di Akko e la sta trasformando in un hotel de charme. Le sue grandi finestre danno su un paesaggio di terrazze arabe affastellate una sull’altra. Torno in strada e ascolto i miei passi risuonare sulle pietre della città vecchia: cammino con un retropensiero maligno nella testa.

Mosè, Gesù e Maometto non sono passati di qua

E’ una settimana speciale per Hani Helfar. Fra pochi giorni, quest’uomo, arabo, cristiano greco-ortodosso, lascerà la guida dalla Beit Hagefen, ‘la casa della foglia della vite’. Sono passati trent’anni da quando ha cominciato a lavorare in questo centro di coesistenza fra arabi ed ebrei ad Haifa. Hani è un uomo allegro e tenace: ‘Il primo sindaco di questa città, dopo la guerra del 1948, si chiamava Shukri Hassan. Era un arabo. Undici consiglieri comunali su quattordici allora erano arabi. Mi creda: Haifa ha un’anima speciale’.

Hani abita in un bel palazzo del centro. Nel suo condominio vivono ebrei, musulmani, cristiani. La figlia di Hani dà lezioni di arabo alla figlia del vicino ebreo. Che vuole passare l’esame con il massimo dei voti. ‘Haifa è un modello possibile di convivenza. Mosè, Gesù e Maometto non sono passati di qui. Nessuno, qui, rivendica luoghi sacri’. Antiche tradizioni religiose raccontano che nella Grotta dei Profeti, sotto la rupe del monte Carmelo, Elia pregasse assieme ai suoi discepoli. La Grotta è venerata da musulmani, ebrei e cristiani. Senza apparenti conflitti. Di Haifa era Emil Habib, grande scrittore arabo (da leggere: Il pessottimista, ed. Bompiani), fra i fondatori del partito comunista, è stato capace di vincere premi letterari arabi ed ebrei. In comune, un architetto arabo dirige il dipartimento del restauro e della conservazione. In nessuna altra città israeliana sarebbe possibile.

Niente scalfisce l’ottimismo di Hani. Nel 1948, qui vivevano 120mila persone. La metà erano arabi. Se ne andarono quasi tutti. I loro figli e i figli dei loro figli vivono ancora nei campi profughi in Libano. A Chatila, gli anziani mostrano sempre le foto delle loro antiche case nella città vecchia di Haifa. Che non esiste più. ‘Ma qui, nonostante quella ferita, abbiamo imparato a vivere assieme’, dice Hani. La scorsa estate, su Haifa, durante la guerra fra Israele e Hazbollah libanesi, caddero centinaia di missili kassam. ‘Eravamo un bersaglio proprio per la nostra storia di coesistenza: volevano distruggere una speranza – è certo Hani – Hanno ottenuto il risultato opposto: ebrei ed arabi hanno avuto la coscienza di un pericolo comune’. Ha ragione, Hani? Troppo ottimismo in questa terra lacerata? Missili di Hezbollah caddero su wadi Nisnas, il quartiere arabo di Haifa. Uno colpì al-Ittihad, il vecchio ufficio del partito comunista.  Paradossi crudeli della follia di questa terra. Stanno restaurando questa vecchia casa araba.

Sito web www.beit-hagefen.com

October fest in Palestina

Nadim Khoury non può fare pubblicità sui giornali della Palestina. Per ragioni di religione. E, forse, è per questo che si è inventato la prima e unica festa della birra dell’intero Medio Oriente. Per due giorni a Taybeh, terra di Palestina, villaggio cristiano a venti minuti di macchina (check point permettendo) da Gerusalemme, si beve birra, si balla, si passeggia fra bancarelle, si mangia, si mettono in scena spettacoli. Come in ogni felice festa di paese che si rispetti. L’Octoberfest di Palestina è arrivato alla sua terza edizione. Nadim, quest’anno, si è perfino fatto spedire manifesti della più celebre festa bavarese e vi ha appiccicato sopra gli adesivi della sua birra.

La storia della microbirreria di Nadim è tutta da raccontare: perfino i corrispondenti della Bbc o della Cnn si dimenticano, per un giorno, degli scontri di Gaza o dell’aria di guerra che si respira nel Golan e vengono a Taybeh a intervistare questo ingegnere palestinese (studi a Boston: sicuramente non è figlio di una famiglia qualsiasi) che, dodici anni fa, sull’onda dell’entusiasmo degli accordi di Oslo e della pace possibile, investì un milione e mezzo di dollari per costruire una fabbrica di birra sulle colline attorno a Ramallah.  La Cnn allora intitolò: ‘Non hanno il loro stato, ma hanno la loro birra’.

‘Tutti in Palestina bevono birra – dice, con un sorriso astuto, Nadim – Non vivrei se i miei clienti fossero solo i cristiani. Vada a Ramallah, a sera, a vedrà quanto è amata la mia birra’. Posso confermare: nei bar della capitale palestinese, si passano le serate bevendo la birra di Nadim.

La birra Tayibeh (è il nome del villaggio, ma, in arabo, vuole anche dire ‘delizioso’) è più che globalizzata: il luppolo viene dalla Germania, il lievito da Londra, il malto dal Belgio, le bottiglie dal Portogallo. Solo l’acqua, e non è poco, è palestinese. La birreria di Nadim è sopravvissuta alle ricorrenti chiusure dei territori, riesce a convivere con il conflitto, alle barriere del Muro e a sfidare leggi culturali e religiose avverse agli alcolici. Preti cattolici e ortodossi, assieme alle autorità palestinesi di Ramallah, erano lì, a godersi l’inaugurazione e a bagnarsi la barba con la schiuma della birra. Otto dipendenti e seimila ettolitri prodotti ogni anno (gli impianti sarebbero capaci di quattromila bottiglie all’ora). Nadim racconta che la sua birra è il prodotto palestinese più conosciuto nel mondo. La esporta in Germania, in Giappone. Ma la birra Taybeh si trova, anche, nei migliori pub di Tel Aviv. Israeliani e palestinesi uniti dalla birra! Al check point del villaggio (sorveglia l’accesso agli insediamenti di Rimmonin e di Kokha Hashahar) i soldati, giovani e di buonumore,  ci chiedono di portargli indietro una bottiglia di birra. Fra gli sponsor dell’October fest di Palestina c’è la Coca-cola! E uno dei manifesti pubblicitari della birra Taybeh suggerisce: ‘Drink Palestinian, taste Revolution’. La birra di Nadim è davvero molto buona.

Settlers

E poi ci sono i settlers, i coloni. Ebrei oltranzisti, quasi sempre ortodossi nella loro religione. Sono un popolo a parte. Vivono, da anni, negli insediamenti che si sono costruiti (a volte con manodopera palestinese) in mezzo alla West Bank. Vivo da assedianti assediati: i loro villaggi, sulle colline della Palestina, sono geometrici come una cittadina di Legoland o una periferia di una provincia americana, hanno tetti con le tegole e imponenti sistemi di difesa attorno. Bypass road, vietate alle auto palestinesi, collegano gli insediamenti ad Israele.

Un giorno ci è successo che siamo rimasti chiusi per oltre un’ora nell’ufficio del sindaco di Sebastiya, piccolo villaggio palestinese a poco distanza da Nablus. Dovevamo andare a visitare le rovine romane dell’antica Samaria, sapientemente restaurate da un progetto della Cooperazione italiana. Non capivamo perché il sindaco ci tratteneva nella sua stanza. Poi ha fatto una telefonata: ‘Se ne sono andati?’. Nella zona degli scavi, quella mattina, erano andati i coloni di Shave Shomeron, insediamento a meno di un chilometro da Sebastiya. Finchè loro, armati, rimanevano lì, a noi era vietato andare.

E allora, forse, è bene avere delle statistiche. La Palestinian Academic Society of Study of International Affairs (www.passia.org ), ogni anno, fornisce i dati sulla situazione generale nei Territori. A metà del 2006, secondo Peace Now, vi erano 121 insediamenti israeliani in West Bank: occupano il 40% del territorio palestinese. Per il governo israeliano gli insediamenti sono 119. Per le autorità palestinesi sono 144 (ma nel loro conteggio è compresa Gerusalemme dove ve ne sono 16, alcuni diventati, oramai, quartieri della città).

Secondo Israele i coloni sono 247.100. Il 9% della popolazione ebraica di Israele. Il loro tasso di crescita è del 5% all’anno (in Israele il tasso di fecondità è dell’1,8%): fra il giugno del 2005 e il giugno del 2006 sono nati, negli insediamenti, 9.300 bambini. Peace Now è d’accordo su questi dati, ma vi aggiunge i 190mila coloni che hanno deciso di vivere a Gerusalemme Est.

E poi ci sono gli outpost, gli avamposti: insediamenti precari, occupazione improvvisa di terre, baracche tirate su in una notte, casa-containers sistemate in poche ore: sono illegali anche secondo le leggi israeliane, ma sono i futuri settlement. Per Peace Now, al giugno 2006, in West Bank c’erano almeno 102 outpost.

Tempo di vendemmia

Tempo di vendemmia sulle colline del Carmelo, le montagne di Haifa. Jonathan Tishbi, 67 anni, nipote di immigrati bielorussi, ha ancora l’aria del colono. In realtà è fra i più importanti produttori di vino di Israele. Un pioniere: fu lui a cominciare, poco più di venti anni fa, la produzione di vino destinato all’esportazione. Un milione di bottiglia all’anno. La sua azienda ha 84 dipendenti.

Alle sette fa già caldo nelle vigne. Operai di Taiwan e vecchi falasha, gli ebrei etiopici arrivati avventurosamente in Israele trent’anni fa, tagliano i grappoli d’uva con una velocità sorprendente. Gli uomini sudano copiosamente. Una donna etiopica ha addosso una maglia pesante. Jonathan osserva e non scende dal fuoristrada climatizzato. Nelle vigne non lavora un solo bracciante israeliano. Da Taiwan arrivano operai con visti di cinque anni. Guadagnano, dice Jonathan, più di mille dollari al mese.

Le vigne sfiorano il paese di Binyamina. E’ una campagna ricca, opulenta. Case eleganti, villette sfarzose, giardini perfetti, fiori ovunque. Qui vive la giovane borghesia israeliana. Gli abitanti di Binyamina lavorano ad Haifa o a Tel Aviv. Sono professionisti, avvocati, tecnici informatici, architetti. Prendono il treno al mattino: meno di un’ora fino alla capitale. ‘Questo è Israele, qui si lavora e si vive bene – mi dice Jonathan – Nessuno dei paesi qua attorno ha conosciuto un simile progresso. Qui si vogliono fare affari, si vuole crescere, stare bene, avere una bella casa e una bella macchina. Israele ha educato bene i suoi figli’. E ancora: ‘Peccato che gli arabi non sentano questo paese come il loro. Hanno una testa diversa. Si sono arricchiti anche loro. Dovrebbero amare Israele’. Nei campi, ci sono gli emigrati da Taiwan (in cinque anni avranno messo da parte i soldi per comprarsi una casa nella loro isola?) e i falasha. I manovali che costruiscono le ville di Binyamina, invece, sono arabi. Le auto dei professionisti israeliani sono parcheggiate, a decine e decine, attorno alla piccola stazione. ‘Gli arabi stanno costruendo Israele’, dice Jonathan.

Turismo

Queste poche righe sono un invito a viaggiare in Terra Santa. Fra Palestina ed Israele. Perché questa è una terra bellissima ed emozionante. Questo è un invito a viaggiare assieme a chi ha avuto il coraggio e la tenacia di creare qui l’Alternative Tourism Group. Sono bravi, intraprendenti, appassionati. Sanno mostrarti la loro terra e raccontarti di Palestina e di Israele. Ti fanno vedere i luoghi sacri e il Muro, la spianata delle Moschee di Gerusalemme e i settlement, il Santo Sepolcro e i campi profughi, il Muro del Pianto e i check point. Loro stanno a Beit Sahour, cittadina-sobborgo di Bethlehem. Il loro sito èwww.atg.ps  La loro mail è info@atg.ps

Ed è giusto viaggiare con loro.

Perchè il 55% dei turisti che vengono in Israele/Palestina (un milione di persone lo scorso anno) crede che Bethlehem sia in Israele.

Perché ho sentito una turista chiedere se il muezzin stava chiamando alla preghiera gli ebrei e una guida americana dire che la storia di Gesù è una leggenda.

Perché ho sentito una guida italiana, con forte accento veneto, raccontare al suo gruppo di pellegrini che molte delle scritte dipinte sui muri blu della Cupola della Roccia, la splendida moschea dal tetto dorato, luogo santo dell’Islam, erano anticristiane.

Perché qui, ci sono solo 300 guide ufficiali palestinesi e 6mila israeliane. Perché, fra il 1967 e il 1997, per trent’anni, nessun palestinese ha ottenuto la licenza di guida.

Perché i pellegrini non vanno ad Hebron, alla tomba dei Patriarchi, altro luogo santo che non si dovrebbe perdere se davvero siamo in un viaggio sulle strade del sacro. Ma là è troppo clamorosa l’occupazione israeliana: ci sono soldati, inferriate, settlers in mezzo alla città…

Perché i pellegrini accompagnati dai grandi operatori turistici non mangiano né cibi israeliani, né palestinesi. E i ristoranti per turisti offrono solo barbecue, come se questa fosse l’Argentina.

Perché a vedere le folle di pellegrini che si accapigliano per una candela (pagata a caro prezzo) nella chiesa della Natività e i custodi del tempio contare i soldi seduti sulle panche davanti ai tabernacoli fa vacillare anche la fede più salda.

Perché i pellegrini, in Palestina, vanno solo a Bethlehem e Gerico. In mezz’ora visitano la chiesa della Natività e, a Gerico, salgono al monte delle Tentazioni e se ne vanno. Non dormono a Bethlehem (che, invece, è più gentile, più tranquilla, più economica di Gerusalemme), non mangiano né a Bethlehem, né a Gerico. La gente di queste città, per gli operatori turistici internazionali, è come se non esistesse.

Perché dopo due mesi passati in questa terra, sono stanco di essere politically-correct e di fronte a queste piccole cose, così insignificanti di fronte ai veri drammi di Israele/Palestina, sono molto arrabbiato. E vorrei che molta gente venisse qui. Che viaggiasse con chi ti incoraggia a tenere gli occhi ben aperti.