Andrea Semplici

Garibaldi

In Mille sbarcarono a Marsala

 Questa mattina il vento è impietoso. Si cammina obliqui e ingobbiti lungo le sponde del canale di Mozia mentre le onde si vaporizzano in una improvvisa schiuma aerea. I vecchi di Marsala si tengono ben fermo il cappello sulla testa. E si rifugiano fra i portici della piazza, si siedono nei caffé dalle buone sfogliatelle. Mi spiegano i loro silenzi: ‘Lo scirocco ci rallenta, ci mette di umore fiacco’. Qui, capo Lilibeo, punta estrema della Sicilia verso Occidente, si incrociano perenni venti bastardi. Lo sanno bene i velisti che corrono con apprensione ed ebbrezza davanti alle coste di Marsala: lo scirocco si mischia alla tramontana e al ponente e nessuno capisce più da dove stia soffiando. ‘Garibaldi ebbe una fortuna sfacciata in quel giorno di maggio’: Luigi Giustolisi, 84 anni, ingegnere, erudito custode di memorie garibaldine, accompagna le sue parole con un gesto eloquente. Suo nonno, giovane studente di medicina, andò di persona ad applaudire il vecchio generale, quando nel 1882, fece il suo ultimo, trionfale viaggio in Sicilia. Da allora la passione per ‘l’eroe dei due mondi’ ha contagiato tre generazioni della famiglia Giustolisi. ‘Quando le navi di Garibaldi apparvero all’orizzonte, non c’era vento, il mare era piatto e Marsala era sguarnita di difese. Due navi inglesi erano all’ancora nel porto. Ufficialmente si trovavano lì  per proteggere i depositi del vino: i più grandi mercanti si chiamavano Woodhouse, Whitaker, Ingham, potenti famiglie britanniche’, ricorda l’ingegnere con un sorriso allegro e astuto. La giornata era ‘tersa, quieta e brillante’. Garibaldi non poteva sperare di meglio: una buona stella, questo è certo, proteggeva la sua incredibile avventura.

L’undici maggio del 1860 era un venerdì e a bordo degli scassati piroscafi Piemonte Lombardo, salpati da Quarto sei giorni prima, si incrociavano le dita e si facevano scongiuri. All’ora del pranzo, la scombinata  banda dei volontari di Garibaldi (1088 uomini e una donna, Rosalia Montmasson, moglie di Francesco Crispi), male armati, vestiti come se andassero a una festa di carnevale (e solo in 150 indossavano la celebre camicia rossa), sbarcarono in una stupita Marsala. Che allora aveva quindicimila abitanti ed ‘era tutta chiusa in un quadrato di mura’. Meno di un chilometri per lato. Ma le sue campagne erano già celebri da quasi un secolo: qui si produceva un vino da delizia. Era un nettare ‘conciato a uso madera’. E gli inglesi, pur abituati al vero Madera e al Porto, ne andavano pazzi. Ma i Florio, celebre famiglia di mercanti calabresi-palermitani, da quarant’anni sfidavano i rivali britannici nel commercio del Marsala. Questa, anche allora, era terra di campagne: ben 104 sono le contrade attorno alle mura delle cittadina. Qui si viveva (e si continua a vivere) fra vigneti e muretti a secco. ‘Questa era, ed è ancora, una città ricca – mi dice Michele Piana, barone ed ex-banchiere – Una piccola Svizzera: fino a pochi anni fa qui c’erano otto banche locali’. ‘E, ai tempi di Garibaldi, vi erano artigiani, bottai, falegnami, marinai, portuali. Questa era una città operaia’, ricorda Giustolisi. Il vino era davvero ricchezza. Oggi qui se ne producono ancora quattro miliardi di ettolitri. Ma solo 80mila quintali sono di Marsala. ‘E appena il 2% è vero Marsala. Invecchiato almeno cinque anni’, rivela Eugenio Ganfalo, ex-sindaco della città e vignaiolo.

I garibaldini, sbarcati allo scalo di scirocco, irrompono, dalla Porta di Mare, in una città deserta e incerta. Il sindaco non si fa trovare. ‘E’ vero: i miei nobili avi rimasero a guardare – sorride Michele Piana – Che altro potevano fare? Non sapevano chi era quella gente vestita in maniera strana. L’aristocrazia si ritirò nei feudi di campagna’. Ma, a modo suo, Marsala si schierò: Garibaldi passa la sua prima notte siciliana in un palazzo borghese; pane, cacio e fave sono la sua cena. Un commerciante gli dona una superba giumenta bianca (che il generale si porterà fino a Caprera). I Mille restano a Marsala appena diciotto ore (sufficienti a far entrare, di prepotenza, la cittadina nella storia d’Italia), si rifocillano, si gustano, con la prima paga, quello strano vino e, all’alba, si rimettono in cammino verso l’interno dell’isola. Cominciò così, in maniera incredibile, la spedizione destinata a cambiare i destini del nostro paese.

La statale 188 punta verso il cuore della Sicilia. E’ un paesaggio di luce accecante. ‘Agavi, fichi d’india, terre arse, polvere e, con il passar delle ore, gran caldo e sete’: agli occhi di quei lombardi, abituati alle nebbie padane, le campagne dell’isola apparvero come una ‘terra africana’.  La piana alle spalle di Marsala è bellissima e struggente. Garibaldi marcia verso Salemi e Calatafimi, osserva i bagli, le grandi masserie fortificate dei latifondi. E nel baglio di Rampingallo passa la sua seconda notte siciliana: la fattoria-fortino, alta su un colle, vigneti tutt’intorno, oggi è in rovina, solitaria, cadente. Un immensa agave avvinghia un dimenticato monumento a Garibaldi. Fu qui che  i primi picciotti siciliani si unirono ai volontari venuti dal Nord. Salemi accolse come un liberatore Garibaldi. ‘E oggi ce ne siamo dimenticati’ si arrabbia Nicola Ferotti. Lui lavora al bar Moderno. Che sta davanti alle spettacolari rovine della chiesa di San Nicola (distrutta dal terremoto del Belice del 1968) e dentro il palazzo dei Torralta, altri nobili, altri gattopardi delle campagne siciliane. Fu a Salemi che Garibaldi divenne ‘dittatore’ della Sicilia. ‘Siamo stati la prima capitale d’Italia – dice ancora il giovane barista mentre mi mostra la stanza, in perenne restauro, dove dormì il generale – e nessuno in paese se ne ricorda’. Il polveroso museo risorgimentale è chiuso e sbarrato.

E come hanno fatto i garibaldini a scalare il colle del Pianto Romano? Come ha fatto il generale a vincere la scaramuccia decisiva della campagna siciliana? Come ha fatto, quattro giorni dopo il suo sbarco, a conquistare le cinque terrazze, allora come oggi coltivate a vigneti, che si arrampicavano verso Calatafimi? La collina si chiamava così da i’chiantu, luogo dove ‘Romano piantò’ le sue viti. Ma i Mille, spavaldi e sbruffoni, pensarono davvero che qui avrebbero fatto piangere i borbonici. E così andò: un beffardo e piccolo esercito di volontari sconfisse soldati bene addestrati (e mal comandati) che controllavano la cima di una montagna. Chissà se Garibaldi avrà davvero mai detto a Bixio: ‘Qui si fa l’Italia o si muore’? Sta perfino scolpito sui marmi in vetta al colle del Pianto Romano (obelisco-ossario chiuso, vetri rotti, registro dei visitatori abbandonato), ma gli storici non ci credono. Come non credono alla corruzione del generale borbonico Landi: secondo i maligni (ma in Sicilia quasi tutti giurano che così andarono sul serio le cose) il vecchio ufficiale napoletano si sarebbe venduto per 14mila ducati. Garibaldi, da parte sua, non ricorda ‘una pugna più eroica’ di Calatafimi.

Palermo è vicina, ma i garibaldini non marciarono ‘dritti dritti’ verso la capitale: a sorpresa aggirarono l’infinito semicerchio delle montagne che sovrastano le spalle della città. Fu un gioco dell’oca geniale e faticoso: i borbonici aspettavano i garibaldini sulla strada di Monreale e, invece, se li ritrovarono come se arrivassero da Messina. Ma fu una marcia forzata, con un tempo di inferno, lungo crinali rocciosi fino a Piana dei Greci (che ora si chiama Piana degli Albanesi), a Marineo, a Misilmeri. Garibaldi attraversò, inconsapevole di quanto vi avverrà ottanta anni più tardi, la prateria di Portella della Ginestra. E’ la Sicilia profonda. Un cammino folle, nove giorni da epopea per raggiungere lo stretto valico di Gibilrossa, le porte orientali di Palermo: da qui, con un panorama inusuale, si ammira tutta la baia della città. Il baluardo del monte Pellegrino si protende nel mare, la città appare come una conchiglia affaticata da troppe maree. Ci sono oltre ventimila borbonici a presidiare il quadrilatero irregolare delle sue mura. I Mille ora sono appena settecentocinquanta, più duemila picciotti. A leggere la lapide di Gibilrossa, quella notte di fine maggio del 1860, Palermo è ‘ansiosa e fremente’.

Palermo è una cipolla

Vorrei vederlo Garibaldi oggi. Vorrei vedere il suo sguardo sorpreso mentre fronteggia, spada in pugno, il groviglio del traffico di Palermo che si annoda attorno al Ponte dell’Ammiraglio. Vorrei non perdermi il suo stupore mentre cammina lungo il Corso dei Mille fino all’incrocio con l’antico Stradone, rettifilo che si spinge fino al mare. Forse perderebbe la sua proverbiale serenità mentre una muraglia di vespine e motociclette impazzite (e, per lo più, i ragazzi sfrecciano senza casco) lo scambiano per il birillo superstite di un bowling. Alla fine del lungo corso, nel 1860, c’era la Porta Termini. Che oggi non c’è più. Qui morì, ferito da una palla borbonica, il garibaldino ungherese Tukory:  poco lontano, la strada che va verso l’entroterra porta il suo nome. Garibaldi, Bixio i Mille, i picciotti siciliani si batterono come leoni per scavalcare la gobba d’asino di quel ponte di pietra e raggiungere le mura della città. Oggi tocca fare altrettanto. Con altrettanto coraggio. Il ponte dell’Ammiraglio, costruito in pietra nel X° secolo da Giorgio di Antiochia, ufficiale normanno, è un colossale spartitraffico. Inutile cercare, sotto le sue arcate, il torrente Oreto. Non c’è più. Deviato, forse disseccato. Le auto, qui, si incugnano una sull’altra, si incastrano in un domino attorcigliato e se la sbrogliano solo a suon di clacson. Bisogna essere sfrontati e azzardati come garibaldini per guidare a Palermo.

Ma il Corso dei Mille ha le sue impreviste delizie. Che Garibaldi apprezzerebbe: qui sta il miglior venditore della città (parole sue) di pani ca’ meusa, il pane di sesamo con la milza. Prelibatezza che aiuterebbe senz’altro i garibaldini, esausti di battaglie, ad avanzare verso la Kalsa e l’Albergheria, i quartieri dove li attendono i borbonici. E il trippaio che sta là dove c’era la Porta Termini non è da meno: nei suoi pentoloni sobbollono, per ore, midolli, grasselli e interiora. Per le sarde arrostite all’istante ci pensa, invece, Tonino Pennino, il migliore pescivendolo di Palermo (sempre parole sue). Stanno tutti sul corso dei Mille. Uno accanto all’altro. Ad ammirarsi la battaglia fra Garibaldi e il traffico.

Benvenuti, dunque, a Palermo. Benvenuti fra i banchetti di panelle crochè, sfogliatine di farina di ceci e crocchette di patate: cibo di strada, cibo come rito quotidiano di un popolo, fast-food di antica dignità e lussuria. Ogni battaglia andrebbe sospesa, perfino la conquista della città andrebbe rallentata, pur di sostare, con il palato in subbuglio, fra gli odori di fritti e soffritti che salgono dai vicoli di Palermo. Hanno torto gli snob che chiamano quest’arte popolare streetfood. Garibaldi si metterebbe a ridere di fronte a quell’inglesismo da salotto e addenterebbe, lui, quasi vegetariano, un panino con la milza incitando i suoi ad avanzare verso Fieravecchia, antica piazza di una Palermo superba, ferita da mille cicatrici, aggrovigliata in straduzze attorcigliate.

Diamo un’occhiata alla mappa della città: il vecchio centro storico allora era circondato da bastioni in cui si aprivano dodici porte. Due strade ad angolo retto, la vecchia via Toledo (oggi strada dedicata a Vittorio Emanuele, e non a Garibaldi) e l’ingolfata via Maqueda, disegnano, ancor oggi, una croce perfetta e dividono il cuore di Palermo nei quattro mandamenti di Castellammare, della Kalsa, dell’Albergheria e del Capo. Quando, all’alba del 27 maggio, Garibaldi entrò, spada alla mano, a Palermo, la città aveva 160mila abitanti. Gli abitanti della Kalsa, vecchio quartiere, arabo e ribelle, non esitarono più di tanto: cominciarono subito ad alzare barricate contro i borbonici.

Lo scrittore messicano Paco Ignacio Taibo, una volta, ha detto che la Sicilia gli ricordava una cipolla. ‘Ed aveva ragione – mi dice a colazione, nel sole di Mondello, Roberto Alajmo, 48 anni, bravissimo scrittore – Palermo è fatta a strati. Puoi decidere di  ammirarne la sua eccentrica perfezione oppure, da bravo viaggiatore, puoi provare a sbucciarla. Pellicola dopo pellicola. Sta a te farlo. Con il rischio che puoi anche piangere quando ne tagli un pezzetto. E che alla fine tu rimanga con niente in mano’. Non sono sicurissimo di aver capito bene, ma credo che consiglierei il libro di Alajmo (Palermo è una cipolla, appunto) a Garibaldi: da stranieri bisogna essere umili in questa città, non avere pretese di capire.

Seguiamo il generale che ha già varcato la Porta Termini. Ora sta sfiorando con la sguardo la muraglia di un palazzo orgoglioso e lungo quasi quanto l’intero isolato. Garibaldi non immagina che questa strada, entro pochi decenni, porterà il suo nome. ‘E noi purtroppo dobbiamo abitare proprio in via Garibaldi’, sussurra, con voce di ghiaccio, Pia Calefati, 60 anni, baronessa di Canalotti. E’ suo il palazzo di Ajutamicristo, capolavoro cinquecentesco, che il generale ha appena sorpassato: nel 1535, Carlo V°, nel suo passaggio palermitano, preferì soggiornare qui piuttosto che a Palazzo Reale. Ma è meglio che il generale continui a combattere e non salga le scale del palazzo, troverebbe porte sbarrate. La baronessa è filoborbonica: ‘Garibaldi ci ha avvilito’.

Me lo dirà anche Guglielmo Moncada di Monforte, 74 anni, discendente in linea diretta da un vicerè spagnolo e, quasi per contrappasso, gran collezionista di documenti garibaldini: ‘Ci ha ingannato, Garibaldi. I picciotti combattevano per la Sicilia e, invece, si sono trovati i piemontesi in casa’. Massimo Romano, 52 anni, docente di filosofia, per anni assessore alla cultura in Provincia, è altrettanto severo: ‘E’ stata una mala unità. Piemontese e statalista’. Eccomi sistemato, io che sono nato a Nord di Roma. Ora guardo i saloni del palazzo Ajutamicristo, gli stucchi, i mobili dorati, i velluti usurati dal tempo. Questa è una Versailles del Sud. Mi dicono che qui, da una sala all’altra, un tempo si svolgevano gare di tiro con l’arco. Non so dove sedermi, non so come muovermi: tutto mi sembra prezioso, fragile, eccessivo, decadente. Per me, straniero, la tentazione di parlare di gattopardi è irresistibile, ma non posso farlo. Elisa Fulco, collaboratrice di una preziosa guida alla Sicilia (Tracce/Sicilia ed. TouringClub), mi aveva quasi minacciato: ‘Guai a te se usi lo stereotipo del gattopardo per parlare di Palermo’. Eppure i borbonici baroni di Canalotti, complici finanziamenti pubblici, hanno aperto, come decine di altre famiglie della vecchia aristocrazia, le loro case blasonate ai turisti. Il centro storico di Palermo è una geografia di Bed & Breakfast di lusso. Cosa sono i loro proprietari? Incerto e accompagnato dai due cani della baronessa filoborbonica, ridiscendo le scale del palazzo e torno a seguire Garibaldi. Che intanto è arrivato in piazza della Rivoluzione, cuore di Fieravecchia. Non so se qui, nel 1860, vi fosse già la piccola statua del Genio: raffigura un re con il volto invecchiato e un corpo da giovane. Un serpente si avvinghia al suo petto, mentre ai suoi piedi vi è un cesto con oro e fiori. Ho letto che è un’allegoria impietosa di questa città: ‘munifica con gli stranieri, ma capace di divorare i suoi figli’.

Garibaldi, guerriero straniero, ha dalla sua parte perfino le donne fedeli di Santa Rosalia: sono convinte che il generale sia immortale, che appartenga alla ‘stessa famiglia’ della Santuzza, che scacci le pallottole nemiche con un frustino. Chi può fermare Garibaldi? Attraversa la Kalsa, sfiora il mercato di Ballarò: arriva in piazza Bologni, due passi da Palazzo Reale, e decide che quello è un buon luogo dove addormentarsi. Stende la sua coperta davanti allo struggente palazzo Villafranca, la reggia degli Alliata, e si riposa per due ore. Poi insedia il suo comando nelle sale di Palazzo Pretorio. Nelle sale dove oggi lavora il sindaco di Palermo. Ma, alla fine, preferisce guidare le sorti dei combattimenti dai gradini della sontuosa fontana ellittica che occupa tutta la piccola piazza di fronte al Palazzo. Così era circondato da beneauguranti statue di divinità, di geni e putti, di donne bellissime dai grandi seni e satiri impenitenti dagli sguardi eccitati. Fontana bellissima ed erotica. Fontana delle Vergogne, per i bigotti di Palermo preoccupati per gli sguardi delle suore di clausura di santa Caterina: ogni mattina, da cinque secoli, le monache si svegliano accanto a quelle nudità di marmo. 

‘La lotta arde per tre giorni’, scrive Alfonso Scirocco, il più autorevole dei biografi garibaldini (lo conosceremo quando arriveremo a Napoli). Borbonici e garibaldini sono allo stremo. Ma Garibaldi appare davvero invulnerabile e invincibile: è il generale Lanza, vecchio comandante borbonico, a cedere per primo. Chiede una tregua. La città è in rivolta: barricate su barricate assediano i napoletani. Che si arrendono il sei giugno del 1860. Sembra impossibile: un banda sgangherata di volontari del Nord e picciotti siciliani (alla fine della battaglia di Palermo i Mille sono poche centinaia e non hanno più di 390 fucili) ha messo in ginocchio il secolare regno di Napoli. I borbonici se ne vanno. E ci vorranno almeno due settimane per le operazioni di imbarco dei loro soldati sconfitti. ‘Le strade di Palermo sembrano un enorme campo di papaveri’, scrive l’inviato speciale, e straordinario fanfarone, Alexander Dumas, l’autore de ‘I tre moschettieri’, ammirando le camicie rosse dei garibaldini. Ma la città è diroccata dai bombardamenti. Mille e cinquecento case sono in fiamme. Destino da disgrazia secolare per i quartieri della Kalsa e dell’Albergheria, i più belli e labirintici della città vecchia: sono un cumulo di macerie, verranno ricostruiti a fatica, e saranno le inutili bombe degli americani nel 1943 a demolirli nuovamente. E distrutti sono rimasti fino ai giorni nostri.

La Kalsa, ovvero l’Eletta, dall’arabo al-Kalish, mandamento alle spalle del porto di Palermo, è luogo straordinario. ‘Fino a qualche anno fa questa era terra di frontiera – mi dice Tiziano Di Cara, 34 anni, architetto, anni di studio in Australia e tornato a Palermo –  Nessuno di noi avrebbe passeggiato per via Alloro con il cuore in pace e men che mai si sarebbe avventurato per la Kalsa di notte’. Di Cara è un testimone interessato: in via Alloro, un tempo la via più malfamata del quartiere, ha aperto, assieme a un altro architetto, una fantastica galleria d’arte a cielo aperto. Nel vero senso della parola: non c’è il tetto alle sue sale, mostre e concerti avvengono in una palazzina devastata dalle bombe del 1943 e, oggi, trasformata in un luogo di rara suggestione. E che dire della ex-chiesa di Santa Maria dello Spasimo? E’ una magia irraccontabile. Niente tetto, nemmeno qui. Solo le note di un jazz raffinato (qui ha sede una già celebre scuola musicale), due alberi imponenti che crescono nella navata, mura degne di un castello incantato e stelle dorate se si guarda verso il soffitto che non c’è. La Kalsa, antico quartiere arabo e normanno, con una brutta e vera fama di mafiosità alle spalle (ma qui sono nati Falcone e Borsellino), oggi è territorio di notti piacevoli, di belle imprese culturali, palestra di talenti musicali, teatrali, artistici. ‘Attento a non farti ingannare – mi consiglia Joselita Ciavarino, 37 anni, scrittrice, editrice coraggiosa, anche lei quattro anni di studi d’arte a Parigi per poi tornare a Palermo – E’ vero questa città appare rinata, ma in realtà i cambiamenti sono avvenuti solo in superficie. Sono state fatte operazioni di cosmesi, non di vero rinascimento. Per un momento, abbiamo davvero creduto che fosse possibile cambiare, in realtà le nostre speranze sono andate deluse. Qui non c’è una biblioteca che funzioni, il traffico uccide la città. Palermo non può accontentarsi dei locali della Kalsa’. A chi dar retta? Anche Roberto Alajmo si infuria se qualcuno si azzarda parlare della movida palermitana. Tiziano Di Cara si difende: ‘Abbiamo bisogno di tempo: ne occorre molto per un vero cambiamento. Ma quanto sta accadendo nel centro storico ha radici profonde. E’ davvero una rinascita della città’. Si vede che Massimo Romano fa il filosofo: ‘L’identità di Palermo è liquida. Sbaglia chi vuole incasellarla in uno stereotipo. Questa città spiazza e sorprende. Ne ha viste troppe: gli arabi, i normanni, l’inquisizione, gli aragonesi, gli spagnoli, i borbonici. Alla fine anche Garibaldi. E siamo ancora qui’.

Povero Garibaldi. Facile vincere una battaglia. Quasi impossibile governare ‘la città liquida’. Chissà se anche lui ha commesso l’errore di cercare di capire Palermo. Forse non ne ha avuto nemmeno il tempo. In fondo poco più di un mese dopo la conquista di Palermo stava già combattendo a Milazzo. Poche settimane ancora e avrebbe varcato lo stretto di Messina. Ma qualcosa il bravo generale, tenace anticlericale e avversario del potere temporale dei Papi, lo capì subito: senza Santa Rosalia, la Santuzza patrona della città, la santa che, nel 1624, sconfisse la peste, non si governa Palermo. Per eccesso, qui viene festeggiata due volte ogni anno. I palermitani chiedono grazia a lei per ogni bisogno. Gli immigrati cingalesi, numerosi a Palermo, hanno già messo nel loro personale panthèon l’immagine della santa. Nessun sindaco, a metà luglio, durante u’fistinu, cinque giorni di festa e preghiera, può tirarsi indietro dall’arrampicarsi su un carro sacro e gridare: ‘Viva Palermo, viva Santa Rosalia’. E Garibaldi, eroe dei due mondi, si inginocchiò con devozione ai piedi della Santuzza.

Garibaldi, le cozze, il pesce spada

 I pescatori di Milazzo sono indifferenti. Passo tre volte davanti a Santa Maria Maggiore, chiesa sul mare, sponda orientale della piccola penisola. Ero qui al mattino, quando il sole cercava di farsi spazio fra nuvole in corsa e poi a sera quando la tempesta aspettava ancora di scatenarsi e loro, i pescatori, non si erano mossi di un metro. Seduti sul muretto del lungomare, rappezzavano, come se fosse una tela infinita, lunghe reti rosse. Le loro barche, dai colori belli e intensi, non sembravano ansiose di tornare in acqua. Sono certo che questi uomini con le rughe disegnate da anni di mare fossero già lì quando Garibaldi, esausto di sciabole e fucili, sopravvissuto per miracolo alla scaramuccia di Ponte di Milazzo, tirò le redini della sua giumenta bianca, smontò la sella che si era portato dietro dalle Americhe e la gettò a terra. Il generale si distese sui gradini della chiesa, mangiò pane e acqua e si addormentò dopo aver vinto l’ultima battaglia della Sicilia. Alexander Dumas, inviato speciale al seguito dei Mille, arriva dopo la fine della battaglia, cammina lungo la spiaggia e scorge Garibaldi con la testa appoggiata sulla sella e gli occhi chiusi. Annotò sul suo diario: ‘Mi pareva di essere invecchiato di duemila e cinquecento anni: davanti a me stava Cincinnato’.

Avevamo lasciato Garibaldi a Palermo. E’ davvero passato un mese. Poco più. E’ piena estate, un caldo torrido avvolge la Sicilia. E’ tempo di consolidare il governo dell’isola. I borbonici hanno più di ventimila uomini nelle fortezze di Messina, Milazzo, Siracusa e Ragusa, ma le colonne garibaldine attraversano l’isola senza intoppi. Scelgono tre strade: Nino Bixio va a Sud verso Girgenti (oggi è Agrigento) e poi risale per Catania. Un’altra brigata sceglie la strada delle campagne della Sicilia profonda (Caltanisetta, Castrogiovanni – si chiama Enna, oggi -, Ragalbuto) dove i contadini stanno mietendo il grano e non hanno nessuna voglia di arruolarsi. E’ un paesaggio struggente e riarso. Il terzo esercito avanza per la costa tirrenica: Bagheria, Termini Imerese, lo sfavillio di Cefalù. La fortezza di Milazzo, castello dalle origini arabe e normanne, fortificato dagli spagnoli, sembra una nave che sta cercando di liberarsi delle corde che la tengono legata a terra. E’ quasi saldata alla roccia, le sue pietre si confondono con la scogliera che, improvvisa, si alza dal mare. La piccola penisola  di Milazzo chiude  l’orizzonte verso oriente. Un colonnello borbonico, Ferdinando del Bosco, osserva dagli spalti del castello le manovre incerte dei garibaldini e scommette che tornerà a Palermo in groppa al cavallo di Garibaldi.

‘Qui, proprio qui’ e, con la mano, Giuseppe D’Amico, 52 anni, appassionato di storie garibaldine, quasi strofina la soglia di Santa Maria Maggiore. ‘Qui Garibaldi si appisolò, ben protetto dai suoi ufficiali più fedeli’. D’Amico dovrebbe davvero fare lo storico: mi racconta, con ricchezza di dettagli, di Archi, di Merì, di Coriolo. Dei paesi della piana di Milazzo che oggi, ai miei occhi, appaiono come una unica urbanizzazione e che, allora, furono i luoghi di altrettanti scontri della più sanguinosa battaglia della campagna di Sicilia. Anna Salomone, giovane artista precaria, sta dipingendo un grande affresco su una casamatta della seconda guerra mondiale: raffigura san Francesco di Paola, veneratissimo a Milazzo. ‘Aiutò perfino Garibaldi a sconfiggere i napoletani – è certa Anna – Una palla di cannone sparata contro di lui non esplose’. In quel 1860, a Palermo, a giugno, erano sicuri che Garibaldi fosse parente di santa Rosalia. A Napoli, a settembre, san Gennaro verrà in aiuto del generale e rinnoverà il suo miracolo anche di fronte al condottiero appena entrato in città. A Milazzo, a luglio, tocca a un san Francesco del Sud dare una mano divina all’eroe dei due mondi.

Oggi un negozio Prenatal occupa la palazzina da dove Garibaldi guardò i borbonici imbarcarsi dopo la resa della fortezza. Strana penisola, questa: uno spuntone di terre e rocce che, per sette chilometri, si protende nel mar Tirreno. A quei tempi era un paesaggio di sabbie e paludi, canneti e siepi di fichidindia. Una maglia fitta di viottoli ne attraversava i vigneti e i campi. La piana di Milazzo è piatta come una tavola. Garibaldi, in quel’assetato giorno di fine luglio, è allarmato: non c’è modo di osservare dall’alto questa pianura marina e il sipario dei canneti favoriscono i difensori della rocca . Non gli rimane che il coraggio dei suoi uomini, la sua astuzia istintiva e la stoltezza dei comandanti borbonici per poter vincere quella battaglia decisiva.

Milazzo, ancor oggi, sembra nascondersi: per anni qui mi sono imbarcato verso le Eolie senza avere la curiosità di scavalcare la fitta foresta dei suoi palazzoni costruiti attorno al porto. Ci voleva Garibaldi per costringermi a salire fino alle strade dell’antico Borgo, fino alle rampe che conducono ai tre livelli della fortezza. Panorama perfetto dall’ultimo spalto. Orizzonti da affresco rinascimentale verso i monte Peloritani e verso il mare aperto. Effetto sorprendente da grandangolo circolare dall’ultimo terrazzo del castello. Forse per questo, per gettare un ultimo sguardo a questo paesaggio, che il colonnello Bosco si asserragliò, con migliaia di uomini, dentro questi bastioni? Fu un gesto scriteriato. Chiuso fra mura imponenti, assediato dai garibaldini, senza viveri, né acqua, non aveva speranze. Da Napoli arrivò l’ordine della resa. Bosco non si impossesserà del cavallo di Garibaldi. Anzi: il generale, ben riposato e come colpito da un’improvvisa nostalgia, si ricorderà delle pampas latinoamericane e, nei cortili del castello, si divertirà a catturare con il lazo i cavalli abbandonati dagli ufficiali  borbonici.

A Garibaldi non venne in mente, nemmeno per un istante, di poter costruire un ponte fra capo Peloro, estremità orientale della Sicilia, e le montagne imponenti della Calabria. Per saggezza antica è bene che le sei teste canine di Scilla fronteggino da lontano la bocca vorace di Cariddi. Il generale, vinta la battaglia di Milazzo, cavalcò fino alle sabbie di Torre Faro e, per giorni e giorni, osservò il via vai di navi e barche nello stretto di Messina. Ricordano i cronisti garibaldini: ‘Ogni dì, e spesso due volte, egli percorreva la via da Messina al Faro’ e saliva sulla torre ‘ad interrogare per lunga ora col cannocchiale la riva opposta’. Fiori viola fioriscono sulla spiaggia di capo Peloro. Un guardiano di malumore e di malavoglia ci sbarra gli accessi della antica torre gli Inglesi: è qui che Garibaldi saliva con il suo cannocchiale? Un faro, dalle vernici bianche e nere, avvolto dalle case del paese, cerca ancora di guidare il traffico perenne di questi mari.

La Calabria sembra proprio a un passo. Meno di quattro chilometri di mare. Qui lo scirocco trova un corridoio perfetto per le sue rincorse. Oramai conosco Garibaldi e so che, nel suo andirivieni, fra Messina e il faro, avrà fatto soste tranquille ai laghi di Ganzirri, lagune salmastre e vulcaniche appena fuori Messina. A quei tempi, nessuno ne turbava la pace: il lago Grande e il lago Piccolo erano oasi per uccelli migratori e, in queste acque, si riproducevano le cozze migliori del Mediterraneo. ‘Hanno un forte sapore di mare’, mi avverte Nunzio Ruello, 60 anni, da sempre coltivatore di mitili a Ganzirri. Se passate di qua in estate, avete qualche speranza: potreste trovare ancora qualcuno che alleva le cozze originarie di questi piccoli mari interni della Sicilia orientale. Altrimenti, in altre stagioni, dovete sapere che queste conchiglie nere provengono dal Polesine e percorrono, in camion, migliaia di chilometri per poter naufragare nel lago Piccolo ed essere vendute, poi, sulle sponde del lago Grande. E’ rimasta la fama di Ganzirri, ma le cozze arrivano da altri mari. Sono certo che il bisnonno di Nunzio avrà offerto al generale, come il bisnipote fa con me, i migliori fra i frutti di mare della sua bancarella. Garibaldi, astemio, avrà bevuto solo acqua: peccato, perché il vino, bianco e aspro, di questa punta estrema di Sicilia, merita di essere assaggiato mentre Nunzio racconta le sue storie di nostalgia.

Questi sono i mesi del caldo sulle coste dello stretto. Grida arrochite da troppo vento distraggono, per un minuto, l’attenzione di Garibaldi. Pigghialu, pigghialu: l’urlo sembrava provenire dal cielo e insegue la scia subacquea lasciata da una coppia di sfuggenti pesci spada. Storie di migrazioni: passano tutti da qui, i tonni come i falchi pecchiaoli, i pesci spada come i rapaci viaggiatori fra l’Africa e il Nord Europa. Lo stretto fra Messina e la Calabria è un passaggio obbligato per pesci e uccelli. Letterio Mancuso, 65 anni, a Ganzirri è conosciuto come Lillo l’americano: la prima volta che salì sull’antenna della feluca, la barca dei cacciatori di pesci spada, aveva sei anni. In fondo Garibaldi non era passato da molti decenni. A quattordici aveva già in mano l’arpione e uccise la sua prima preda. Barche da follia, le feluche: oggi hanno antenne che volano fino a 20 metri e le loro passerelle si spingono fra le onde di oltre quaranta. A Ganzirri, solo sette equipaggi scendono ancora in mare nei mesi del caldo e delle migrazioni. ‘Troppe navi nello stretto, troppa gente – mi dice Letterio – Ai tempi di Garibaldi, sì che ce n’era di pesce’. Assieme sediamo sulla sabbia di Ganzirri a prenderci il vento di scirocco in faccia.

Passa ferragosto e Garibaldi fa il misterioso. Appare e scompare. Continua a venire a Torre Faro, ma non si ferma più a scambiare due chiacchiere con i bisnonni di Nunzio e Letterio. I due pescatori intuiscono che sta per accadere qualcosa. Si danno di gomito. Ne sanno più loro delle spie borboniche. Un giorno, al ritorno dal breve viaggio a capo Peloro, Garibaldi non torna a Messina, ma galoppa più a sud. Verso Taormina, verso l’approdo di Giardini. Se i Borboni, e le flotte di mezzo mondo, lo aspettano a Scilla, lui ha scelto la rotta più lunga per attraversare lo stretto: liberare l’Italia ha senso solo se si parte dalla sua punta più meridionale. Mélito di Porto Salvo, ad esempio, là dove lo scirocco è compagno di ogni giorno. Contrada Lembo è il punto più a Sud del continente Italia. La spiaggia di Rumbolo è a pochi metri di distanza. Due piroscafi, il Torino e il Franklin, hanno atteso Garibaldi a Giardini e ora, nella notte fra il 19 e il 20 agosto del 1860, in silenzio, solcano le acque del Mediterraneo. Rotta più lunga (e più sicura) fra la Sicilia e la Calabria, Garibaldi non poteva trovarla. Paolo Praticò, 62 anni, allevatore di cavalli a Mélito, è un poeta: ‘I pescatori siciliani e calabresi accesero le lampare delle loro barche e guidarono la navigazione delle due navi’. Come mi piacerebbe che qualcuno ricostruisse questa immagine per ricordare l’impresa dei Mille. Un viale marino illumina la notte per Garibaldi.

Sono andato in cerca di Paolo Praticò perché è fra i fondatori di un raggruppamento della Protezione Civile che si chiama Garibaldini a cavallo e perché da ragazzo si tuffava dal comignolo del Torino. Già, la nave, al comando di Nino Bixio, finì per arenarsi di fronte alla spiaggia del Rumbolo. ‘E’ ancora là sotto. A cinque metri di profondità – mi spiega Praticò – Negli anni ’50 affiorava ancora. Noi ragazzi ci immergevamo sul relitto per prenderne il ferro e rivenderlo ai commercianti’. Stele di metallo, ossario dei garibaldini (la marina borbonica a sparare qualche cannonata alla fine ci provò), vento caldo, acque azzurre e profonde. Al di là del mare, la mole imponente dell’Etna fronteggia l’Aspromonte.  Garibaldi è sbarcato in Calabria e i contadini di Mélito, sempre a sentire Praticò, offrono fichi e pesche a quegli uomini in camicia rossa. I panettieri infornarono tremila e cinquecento ‘rotoli di pane’ per sfamare quell’esercito. Il generale sale fino al palazzo dei marchesi Ramirez (loro no, loro non avevano atteso lo sbarco e se ne erano andati) nella contrada di Annà. Da qui, collina sul mare, sorveglia lo sbarco. Un abile cannoniere borbonico, da bordo della nave Fulminante,  decide che è tempo di finirla con questa storia dell’eroe dei due mondi.  Carica il cannone e spara. Garibaldi, come in un fumetto, vede la bomba volare verso la finestra dalla quale è affacciato. Un maniscalco lo afferra e lo protegge. La palla si incastra nel muro del palazzo. Volano calcinacci e schegge. Il generale è incolume. Centoquaranta anni dopo (la palazzina è diventata un ristorante colmo di reliquie garibaldine), quella palla di piombo è ancora lì, conficcata fra lo stipite della finestra e il tetto.

In dieci giorni, in quell’agosto straordinario, i garibaldini entrano a Reggio, ‘si impadroniscono di fortezze, cannoni, fucili, depositi di viveri e vestiario’ di mezza Calabria. Non fanno prigionieri: li liberano, non sanno dove custodirli. Che se ne tornino ai loro paesi. Molti prenderanno le vie dei monti: nascerà così la ribellione del brigantaggio contro gli invasori piemontesi. Ma ora i borbonici sono in rotta. Da Mélito di Porto Salvo a Napoli ci sono più di cinquecento chilometri: Garibaldi li percorrerà quasi a passo di corsa. A Reggio, sul lungomare Falcomatà, splendida fuga di lampioni con l’Etna come fondale da scenografia impressionante, passeggio a fianco dello storico Pasquale Amato: ‘Garibaldi è un libertador latinoamericano. Non a caso indossa un poncho. Ha sempre il cappello in testa e il fazzoletto al collo. I generali piemontesi non potevano che detestarlo: lui è il Che Guevara dell’800’. Il sole tramonta oltre le montagne della Sicilia, le navi vanno e vengono lungo lo stretto, decine e decine di persone fanno jogging su uno dei più bei lungomare d’Italia. Garibaldi non ha tempo, adesso ha davvero fretta: sta viaggiando verso Napoli e la capitale borbonica attende il vincitore. Inutile che Francesco II, l’ultimo re, chieda aiuto a san Gennaro: il patrono della città non lo ascolterà. A Napoli, fra i vicoli dei Quartieri Spagnoli e lungo l’infinita via Toledo gli sciuscià hanno già capito cosa sta per accadere. Prima di qualsiasi esperto di marketing, intuiscono il nuovo affare. In due settimane vendono seimila ritratti di Garibaldi.  

 Bronte, ‘avevano detto che c’era la libertà’

 I ‘galantuomini’ indossavano i cappelli. I popolani portavano la berretta. E da quattro secoli i contadini di Bronte, paese dell’Etna, paese di montagna incastrato fra sciare di lava e alberi di pistacchio, avevano fame. Un papa e i Borboni avevano donato i latifondi più fertili ai potenti della Sicilia. E nel 1799 Ferdinando di Sicilia regalò i terreni comunali di Bronte, 17mila ettari di campi coltivati, frutteti e boschi, ad Orazio Nelson. Il celebre ammiraglio non si scomoderà a venire in Sicilia, manderà amministratori, ma mai verrà fino alle falde dell’Etna per ammirare la bellezza del dono borbonico. Era una gratitudine macabra, quella di Ferdinando: Nelson aveva fatto impiccare, nella baia di Napoli, l’ammiraglio napoletano Francesco Caracciolo, ribelle antiborbonico.

berretti di Bronte aspettavano da secoli Garibaldi. Quando seppero delle sue vittorie a Calatafimi e a Palermo, capirono che erano venuti i giorni del riscatto. La libertà, intitola Giovanni Verga una sua celebre e grandissima novella che racconta dei ‘fatti di Bronte’. I contadini, i carbonai dell’Etna, i boscaioli frustati e perseguitati per secoli dai campieri dei cappelli del paese volevano terra e vendetta. E in quell’estate di sangue, primi di agosto del 1860,  la loro rabbia non conobbe esitazioni: linciarono il notaio e suo figlio, uccisero la guardia municipale, il cassiere comunale, il contabile dei Nelson: fu la caccia al galantuomo, al feudatario, a chi, da sempre, li aveva condannati alla fame. Vennero uccisi in sedici in quel giorno di rivolta. ‘Ma quei contadini affamati non avevano speranze – mi spiega, con malinconia, Antonino Liuzzo, 68 anni, bancario in pensione, animatore di Bronteinsieme, appassionato gruppo di cultori di storia locale – La terra qui apparteneva ai Nelson e gli inglesi chiesero subito a Garibaldi di riportare l’ordine a Bronte. Altrimenti non gli avrebbero consentito di passare lo stretto di Messina’. E il generale inviò in quel paese di montagna un impaziente Nino Bixio. E l’uomo ‘che faceva tremare la gente’, sanguinario e violento, aveva solo fretta: non  voleva perdersi lo sbarco in Calabria. Arrivò in paese in carrozza, fece arrestare i primi brontesi che gli si presentarono davanti, mise in galera il pazzo del villaggio. E ordinò una spietata rappresaglia. In poche ore, un farsesco tribunale militare emise le condanne a morte: cinque uomini furono fucilati contro il muro della chiesa di San Vito. Chi aveva compiuto davvero l’eccidio dei galantuomini era già fuggito nei nascondigli dell’Etna. Scrive Verga che in paese tutti tornarono a fare quello che facevano prima: ‘I galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza galantuomini’. Un carbonaio, quando sentì le manette garibaldine scattargli ai polsi, balbettò: ‘In galera? E perché? Se avevano detto che c’era la libertà…’.

Solo la fine della mezzadria, appena quarant’anni fa, ha dato le terre ai contadini di Bronte. Il latifondo dei Nelson è durato, erede dopo erede, fino al 1981. La vecchia masseria padronale, bellissima e solitaria, oggi appartiene al comune, è un edificio pubblico: è laggiù, nella piana, sulle sponde del torrente Saracena, distante sette chilometri dal paese. Per oltre un secolo il massacro di Bronte è stato ignorato dai libri della scuola italiana. Oggi, un monumento, di fronte alla chiesa di San Vito, ricorda le vittime di quella libertà. Ma un vicolo che conduce a quella statua è dedicato a Nino Bixio.

Garibaldi e san Gennaro

Non avrebbe potuto fissare il nostro appuntamento in un luogo diverso. Al mattino presto, piazza del Plebiscito, l’antico Largo di Palazzo dei tempi borbonici, è un deserto che sta ancora scrollandosi di dosso le fatiche della notte. Come capita a ogni viaggiatore che approdi a Napoli, anche Garibaldi, generale vittorioso, fu condotto, in trionfo, in questo immenso semicerchio-vetrina della città: è il suo cuore regale e popolare, snob e slabbrato, elegante e sdrucito. Qui, a ridosso di darsene e bacini, piazza-frontiera dell’invisibile alveare dei Quartieri Spagnoli, da sempre, il popolo di Napoli accorre per le sue feste più grandi. Garibaldi, quel 7 settembre del 1860, era tranquillamente arrivato in città in compagnia di un pugno di suoi compagni di avventura: quasi fosse un semplice viandante, il  guerrigliero ribelle e coraggioso conquistava un regno scendendo, con assoluta normalità, da un treno. Nessuna battaglia per Napoli, nessun ingresso a cavallo: Garibaldi, appena due settimane dopo lo sbarco in Calabria, prese un treno a Vietri (fino a qui era arrivata la prima ferrovia ‘italiana’) e, dopo due ore di viaggio, costeggiando la mole del Vesuvio, si ritrovò, immerso nella folla, nella capitale di un regno che non c’era più. Francesco II°, il re borbone, era in fuga: in nave, aveva lasciato Napoli il giorno prima. Assurdo per assurdo: il corteo trionfale, nel suo cammino verso il Largo di Palazzo, discende verso la Marina e sfiora le fortezze del Carmine e del Maschio Angioino. Seimila soldati borbonici, asserragliati là dentro, non sanno più che cosa fare: alla fine, incerti se sparare o meno, presenteranno le armi a quel generale solitario e spavaldo, acclamato da una folla straripante.

Non è un caso che Alfonso Scirocco, 80 anni, docente di Storia del Risorgimento, il più autorevole fra i biografi di Garibaldi (ho contato, con approssimazione, ben 26 biografie del generale: credo che siano molte di più), abbia voluto incontrarmi qui. E’ un napoletano puntuale: al mattino presto cammina in mezzo a piazza del Plebiscito godendosi il sole e la solitudine. Mi indica il balcone della Prefettura: ‘Allora questa era la Foresteria dei Borboni. Garibaldi si affacciò da quel balcone, la piazza era gremita ed giubilante. Il generale alzò il dito indice: l’Italia doveva essere una’.

Forse c’è anche un’altra ragione per la quale l’anziano e gentile professore mi ha fissato questo appuntamento mattutino: il Gran Caffé Gambrinus (lo avevo chiamato bar e Scirocco mi ha guardato come se fossi un eretico) occupa un angolo superbo del palazzo della Foresteria. E’davanti al teatro San Carlo, a un passo dalla Galleria, crocevia fra via Toledo e via Chiaia. Alfonso Scirocco ha qui un suo tavolo preferito fra gli specchi e i mobili dorati: caffé e sfogliatella, come resistere? Il Gran Caffé non si chiamava ancora Gambrinus, ma già esisteva in quella estate del 1860 e Garibaldi, austero e monacale nei suoi peccati di gola, non avrebbe mai saputo vivere senza na’tazzulella e’cafè….

Sono passati appena quattro mesi da quando un migliaio di giovani dissennati erano sbarcati a Marsala. Quella banda sgangherata di borghesi malearmati e guasconi, guidati da un uomo di mezza età vestito con un poncho e una sfavillante camicia rossa, aveva risalito, a piedi e a cavallo, mezza penisola, sconfitto un esercito ben armato, conquistato un regno di nove milioni di abitanti. Adesso Garibaldi, senza sparare un solo colpo di fucile, entrava in treno nella capitale del regno dei Borboni. La geopolitica del Mediterraneo e la storia di’Italia erano destinati a cambiare di colpo per merito della lucida follia di mille uomini. Se a Palermo, a fine maggio, Garibaldi aveva dovuto farsi largo a barricate per sedersi sui gradini della fontana di Palazzo Pretorio; a Napoli, agli inizi di settembre, percorre le strade della città come se fosse il santo patrono. Quando apparve sul balcone della Foresteria era più celebre di una rock-star (se ci fosse già stato il rock). A Londra si stanno vendendo un milione di copie del suo ritratto. Era l’uomo più famoso d’Europa.

Napoli cresce su sé stessa. Rifiuta le geometrie tradizionali. Va in verticale, si arrampica sulle colline, si intestardisce in uno sghimbescio groviglio di vicoli. E’ simile a un’arnia costruita da api geniali e disobbedienti. In fondo nemmeno i romani, qui, sono riusciti a tirar dritti cardi e decumani: via dei Tribunali e via san Biagio dei Librai assomigliano, è stato scritto, a ‘corde troppo cariche di panni’. Napoli è un caos ‘democratico’: ricchi e poveri si mischiano uno sull’altro. Nella città vecchia sembrano non esserci frontiere fra i quartieri eleganti e i labirinti da apprensione (per i visitatori disorientati) della Sanità o dei Quartieri Spagnoli. Nei giardini solari di santa Chiara, donne rom dalle grandi gonne si infilano fra gli invitati alle nozze di un ufficiale dei carabinieri. Ragazzi punk ironizzano danzando un valzer elettrico davanti agli sposi. Fuori dalla chiesa un emigrato russo suona, ogni giorno, la sua fisarmonica: questa mattina è una marcia nuziale. E nessuno sembra scandalizzarsi fra gli ospiti di quel matrimonio. Anzi: turisti tedeschi si accodano alla festa improvvisata. Guaglioni dai capelli ritti di gommina giocano a calcio fra i tavolini di piazza san Domenico. Davanti all’Orientale, colta università, gli studenti hanno teso una corda e si sfidano in accanite partite di pallavolo.  Due ragazzi si amano senza pudori nel viavai dei turisti di Spaccanapoli.  ‘Non ce ne andremo mai da Napoli – mi dirà Valeria Parrelli, 33 anni, giovane e brava scrittrice – Stiamo male lontano da questa città’. Anch’io adoro questa città sgangherata. ‘Francesco II° non fece niente di nuovo quando scelse di abbandonare Napoli nelle mani di Garibaldi – mi sorprende un altro storico napoletano, Luigi Mascilli Migliorini – Questa città si è sempre arresa a ogni conquistatore senza combattere’. Come se fosse certa che, alla fine, sarebbe stata più forte di ogni straniero. Antonella Cilento, altra scrittrice di questa Napoli fertile di talenti, avverte: ‘A Napoli tutto cresce sulle ricrescite precedenti. E’ immortale, indipendentemente dalle troppe malattie accumulate in anni e secoli’. ‘Non voglio che questa città sia più ingannata – si sfoga Valeria Parrelli – Voglio che cambi sul serio: non mi accontento più che si faccia del lifting per nascondere le sue rughe e i suoi mali. Non voglio ciliegine su una torta che non c’è. Voglio la torta’. Garibaldi avrà capito dove è finito mentre discende le scalinate della Foresteria e si avvia verso l’alveare del centro storico?

Garibaldi cammina a fianco di Alfonso Scirocco per l’infinita via Toledo, strada aperta dagli spagnoli nel 1536. Per secoli è stata la più lunga via d’Europa: due chilometri su cui si affacciano i palazzi del potere economico e le lenzuola (le mutande, le camice, i pantaloni…) appese ai fili tirati fra le finestre contrapposte dei vicoli. Garibaldi ha un buon passo (oggi sobbalzerebbe di fronte a nostalgici manifesti borbonici appesi qua e là per Napoli), risale via Toledo fino al triangolo dello Spirito Santo. Qui si infila fra gli stradelli-mercato del centro storico: attraversa, con sguardo affascinato, la scenografia lineare di chiese di via dei Tribunali, un eccesso architettonico di gotico, rinascimentale e barocco. Ha ancora ragione Anna Cilento: ‘Napoli è un orologio medioevale. Con tutti i cardini e i meccanismi che si inseguono e si perdono, un grosso orologio sfasato con fusi orari di diverse epoche e nazioni’. Alla fine, il generale prende fiato (troppa bellezza!) e si ritrova, in gloria, davanti ai marmi del Duomo. ‘A Palermo il vescovo si schierò con Garibaldi – mi spiega Scirocco – a Napoli, invece, il cardinale Sforza sbarra la cattedrale. Dovettero forzare il portone per entrare’. Ma se i preti, questa volta, sono con i Borbone, Garibaldi, nemico del Papa, ha i Santi dalla sua parte: settembre è mese sacro a Napoli e giorni migliori per prendere possesso della città l’eroe dei due mondi non poteva indovinare. Davanti a lui viene fatto sfilare, tirato da sedici buoi, un grande carro allestito per la festa di Piedigrotta. E Garibaldi non si perde le cerimonie dedicate alla Madonna. E poi mancano pochi giorni al miracolo di san Gennaro e il sangue del santo non si dimenticherà di sciogliersi anche in quell’anno. E’ un alleato decisivo per Garibaldi.

 Vincenzo De Gregorio, 61 anni, è l’abate tesoriere della cappella di san Gennaro. E’ lui a possedere una copia delle chiavi (l’altra è nelle mani del sindaco di Napoli) che aprono l’urna dove è conservata l’ampolla del sangue. De Gregorio sarebbe piaciuto a Garibaldi: uomo colto e sorridente, musicista amatissimo (‘riesce a far parlare l’organo’, mi dirà uno dei custodi della cappella di san Gennaro), dirige, con pazienza e passione, il conservatorio di san Pietro a Majella. E’ in ritardo per il nostro appuntamento: e allora, come per guadagnare tempo, sale, con la sua fantastica vespina rossa, sul sagrato del Duomo. Il ragazzino rumeno che sta davanti alla chiesa gli corre addosso. Lui entra in cattedrale a passo svelto con il casco in testa e, nella cappella di san Gennaro, chiesa nella chiesa, comincia a raccontare destreggiandosi con sapienza fra i cinquantun co-patroni della città. Ripenso ad Erri De Luca: ‘La religione a Napoli è febbrile, svergognata, addolorata, rivendicativa, sgargiante di stoffe in processione e spari in cielo’. Che cosa ci avrà capito Garibaldi? Come a Palermo per santa Rosalia, a Napoli san Gennaro ha una doppia festa: a maggio e a settembre. ‘Lo scorso anno aprii lo scrigno e il sangue del santo era già sciolto. Ci fu un po’ di delusione. Due anni fa non si sciolse e fu il gelo’, mi dice l’abate tesoriere. Ma, quasi sempre, è un tripudio di grida e pianti, preghiere e suppliche, ansie e sudori: il sangue non delude e oscilla, liquido puro, nella teca più sacra di questo Sud straordinario. Come a Palermo, penso che non si governa Napoli senza san Gennaro. Quando, quarant’anni fa, la chiesa vaticana cercò di limitarne il culto, a Napoli apparve una scritta eloquente: san Gennà futtetenne….‘Il suo mito dura da quasi diciotto secoli – mi aveva detto Francesco De Sio, storico delle religioni all’Orientale – Il suo potere è magico-religioso’. ‘Niente affatto – replica De Gregorio – San Gennaro è il simbolo di una religiosità profonda, protagonista di un sistema di un solido sistema di solidarietà sociale. Attorno al suo culto si è formata la chiesa migliore’. Una cosa è certa: davanti a san Gennaro, vescovo di Benevento, decapitato a Pozzuoli nel 305, i mali di Napoli (eruzioni, peste, terremoti) fuggono. In Duomo Garibaldi, appena arrivato in città, si inginocchia con ‘il più profondo raccoglimento’. Poi riattraversa Spaccanapoli: in via Toledo, una sua conterranea, la principessa nizzarda Doria d’Angri, ha offerto il suo palazzo al generale. Garibaldi si sistema in una stanzetta all’ultimo piano. Ha addosso le prime malinconie: come se intuisse, fra gli stucchi del nobile palazzo, che l’avventura dei Mille stesse per finire.

Il governo napoletano di Garibaldi è una meteora: la guerra, in realtà, non è finita, l’esercito borbonico è schierato lungo la frontiera del fiume Volturno. Cinquantamila uomini che, dalle fortezze di Capua e Gaeta, minacciano di riprendersi Napoli. Il quartier generale militare delle camice rosse è nella reggia di Caserta. E Garibaldi deve anche divincolarsi fra i trabocchetti della politica: è l’unica battaglia che sa di non saper vincere. Cavour e i piemontesi non lasceranno mai nelle mani di un guerrigliero le sorti di un regno. Il porto di Napoli si infittisce di navi da guerra di ogni nazione, l’esercito piemontese, imbelle fino ad allora, si muove da Nord.

A Napoli, il governo di Garibaldi fa finta di comandare: fra gli altri provvedimenti, vieta il gioco d’azzardo. Cioè, il lotto. E mai decreto fu più stolto e disatteso. ‘Era come togliere speranza ai disperati’, mi dice un vecchio giocatore. Cosa avrà sognato Garibaldi in quella notte del sette settembre? La folla che lo ha appena acclamato, ora è lì che scartabella abbeccedari della fortuna per decidere che numeri giocarsi sulla fuga del re e sull’arrivo del generale in città. Io torno di corsa in via dei Tribunali: qui c’è una vecchia ricevitoria, sfoglio le pagine della Smorfia, talismano dei buoni numeri, e trovo quello che cerco. Ottantasei. Gioco il numero di Garibaldi.

Città straordinaria, Napoli. Mi avvertono: ‘a dispetto delle apparenze non si apre a chiunque’. Nemmeno a Garibaldi, nonostante il trionfo. In via san Gregorio Armeno, vicolo dei pastori, cerco una sua statuetta da presepe: ero certo che ci fosse, c’è di tutto qui, da Pulcinella con la pizza in mano a Madonne in lacrime, da Berlusconi con un sorriso da squalo a Marylin con le gonne che svolazzano. Ma del generale in camicia rossa non c’è traccia. E un artigiano mi scruta con sguardo diffidente: sarria stato meglio si Garibaldi se faceva ‘e fatte suoje

 L’ultima battaglia

Nuvole di tempesta sulla piana del Volturno. Coreografia di lampi all’orizzonte. Com’è bella la terrazza della basilica benedettina di sant’Angelo in Formis: è un balcone aperto sulla piana dell’antica e perduta Campania Felix. Garibaldi è inquieto come il cielo di questa nostra mattina sulle sue tracce. Il Volturno, quarto fiume italiano per portata di acque, sembra più contorto di quanto sia in realtà: il suo corso è simile a un serpente che si muove con cautela. All’alba l’esercito borbonico, quel primo giorno di ottobre del 1860 (il cielo era di piombo anche allora e una fitta nebbia si alzava dal fiume), ha lasciato la fortezza di Capua. Dal balcone di sant’Angelo Garibaldi vede migliaia di uomini trasformarsi in un ventaglio che sembra occupare ogni cammino della piana. Per la prima volta, il generale-guerrigliero deve fronteggiare un attacco. Sono lontani i tempi di Calatafimi: in questa pianura si combatterà su un fronte lungo trenta chilometri. Da Capua alle montagne del Sannio, è l’ultima battaglia, la sfida decisiva e campale dell’avventura dei Mille. E questa volta Garibaldi dovrà difendersi: trentamila uomini stanno marciando contro di lui.

Francesco Russo, 80 anni, vecchio scalpellino, ha una famiglia longeva: sua madre è morta a 104 anni. Sua nonna a 98. Sono sempre vissuti nella piccola piazza di sant’Angelo: e fu proprio sua nonna a vedere, da bambina, i garibaldini dissetarsi nel lavatoio del paese. ‘Vennero qui a ripulirsi del sangue e della polvere’, racconta Russo. E, come uno stratega, ci spiega che Garibaldi, nervoso come mai l’avevamo visto, saliva e scendeva dalle falde del monte Tifata, la collina che sovrasta il paese. Piccola capitale d’Italia per un giorno di battaglia, sant’Angelo: Garibaldi si getta nella mischia, arranca, gli sparano addosso, a leggere il corriere di Capua, almeno ‘quindicimila colpi’ di fucile, guida i suoi uomini alla riscossa. Da Santa Maria a Castello di Morrone, da sant’Angelo agli imponenti Ponti della Valle, la piana del Volturno è in fiamme.

A guardarla oggi, questa pianura è una sola urbanizzazione. La via Appia è una scenografia intasata di centri commerciali. Le case sembrano affastellarsi una sull’altra senza alcuna forma. Non so dove finisca Napoli e dove comincia Maddaloni o Caserta. La nuova e longobarda Capua mi sembra come saldata all’anfiteatro di Santa Maria, l’antica Capua etrusca e romana: temo che Annibale non riuscirebbe più a oziare in questa piana, che Spartaco non avrebbe nemmeno lo spazio per organizzare la sua ribellione e che i garibaldini dovrebbero combattere casa per casa se volessero resistere, oggi, all’avanzata borbonica.

Più a oriente, verso le montagne, i Ponti della Valle, grande acquedotto costruito alla fine del ‘700 per alimentare le acque della reggia di Caserta, sono un viadotto impressionante: tre ordini di arcate alte cinquantasei metri e lunghe oltre mezzo chilometro fra le pendici dei monti Longano e Calvi. I Ponti sembrano sbarrare la strada della Ducenta fra Maddaloni e Benevento. Oggi, nei giorni di festa, questo è luogo di pic-nic delle famiglie di Caserta. Qui toccò a Nino Bixio fermare i borbonici che cercavano di marciare su Maddaloni: fu ‘una zuffa feroce’ e sanguinosa. Caddero anche undici ufficiali di Bixio. E’ per questo che il monumento garibaldino, qui, ai Ponti, è così affollato di soldati di marmo e lapidi.

A sant’Angelo in Formis, è un anziano marmista, Luciano Caruso, 72 anni, a prendersi cura, ogni giorno, di un piccolo cimitero garibaldino oramai accerchiato dalle case. E’ un angolo di pace (due palme, qualche albero di aranci) nel caos urbanistico della piana casertana. ‘Mi piace che questo luogo sia in ordine’, dice Luciano. Qui è sepolto il più giovane fra i caduti garibaldini: il diciassettenne milanese Lamberto Lamberti fu colpito da una palla borbonica all’inizio della battaglia.

Nel pomeriggio Luciano gioca a carte con Francesco Russo al circolo degli anziani di sant’Angelo: è come se si ritrovassero minime memorie garibaldine in questo confuso frammento d’Italia.  La sera di quel lontano primo ottobre la piana del Volturno è ‘un formicolio di rosso’. Garibaldi ha dimostrato di essere un gran comandante: ha mosso con  intelligenza i suoi reparti, ha rischiato, ha combattuto in prima fila, ha sorpreso il nemico. Il guerrigliero in camicia rossa è davvero un  generale straordinario. Ha vinto, con fatica, una impossibile battaglia campale.

Ora Garibaldi è esausto ed affamato. Non si rifugia nella reggia di Caserta, torna a sant’Angelo in Formis, risale fino alla basilica benedettina e finalmente se ne gode la grande bellezza. Guarda verso la piana sulla quale è calata la notte. Vede i borbonici rientrare fra le mura di Capua. E’ stanco e malinconico. E’ il parroco di sant’Angelo a preparare la cena per Garibaldi. Poi il generale beve l’amato caffè e si addormenta. ‘Non ricordo nemmeno dove’, scriverà poi nelle sue memorie. Il parroco chiuse con cura le porte di quella stanza sopra l’arco d’ingresso alla basilica. Nella piazza Luciano Caruso e Francesco Russo camminano in silenzio: hanno finito la loro partita a carte e sembrano vegliare sul sonno di Garibaldi.   

 L’incontro di Vairano Patenora. O no?

Parteggio, senza ragione, né diritto, per Vairano Patenora. Ma, lo dico subito, riconosco che è battaglia persa: questo paese dell’alto casertano, quasi terra di confine fra Campania e Lazio, non ha speranze. Nome più sfortunato, dal punto di vista di un giornalista, non poteva averlo. Com’era possibile far entrare in un titolo di giornale che Garibaldi e Vittorio Emanuele II° si erano incontrati a Vairano Patenora e non a Teano? Il corrispondente della Reuter (che non c’era, era appena cominciata la stagione dei giornalisti di guerra, ma erano tutti distratti quel giorno) non avrebbe mai potuto scrivere un nome che non c’entrava nemmeno nel telegramma da inviare alla sua redazione. Non che faccia molta differenza per i destini dell’Italia: in fondo, anche se oggi nel mezzo ci sono le barriere dell’Autosole e della ferrovia, fra i due paesi non ci sono più di nove chilometri. In più: il quadrivio dove avvenne il più celebre (e rapido e imbarazzato) incontro della storia d’Italia era, allora, aperta campagna. A pochi passi c’era solo la vecchia taverna della Catena, rifugio dei viandanti fra Abruzzi e Campania, e nient’altro: oggi, invece, qui c’è la stazione di Vairano (che così diventa, per complicarmi le cose, Vairano Patenora Scalo) e una muraglia compatta  e scombinata di negozi, bar, magazzini, capannoni, pizzerie per camionisti, ambigui out-let di vestiti dai grandi marchi. E c’è anche una piazza, priva di qualsiasi architettura sensata, dove è difficile, nel districarsi di un traffico da apocalisse di provincia, notare un paio di dimenticati monumenti garibaldini. Ben più visibile il bar L’incontro. Con tanto di affresco al neon dove il re e il generale si salutano come fossero vecchi amici di caccia. La ragazza che sta pigramente seduta sotto al dipinto post-moderno sussurra: ‘Il bar si chiama così perché qui si incontrano tutti i ragazzi del paese’. Antonio Ruizzo, proprietario del bar, la fulmina con una occhiata: ‘Non le dia retta….’

Il viaggio sulle tracce di Garibaldi finisce con una gustosa rissa che, da sempre, oppone lo sconosciuto Vairano al celebre Teano. Rissa di storici locali, di testimoni che giurano e spergiurano, di monumenti, di lapidi contrapposte, di intrighi di paese, di ricerche affidate all’innocenza sospetta degli studenti delle scuole medie, di faide politiche e di campanile. Non riuscirò mai a mettere d’accordo il pasticcere di Teano con la maestra di Vairano, il barista di Vairano con l’arcigna bibliotecaria di Teano: ognuno sposterà la geografia dell’incontro fra il re e il guerrigliero sulla collina di casa propria. Mi affido ancora ad Alfonso Scirocco, il biografo di Garibaldi: ‘Si incontrarono al quadrivio della taverna della Catena. Poi cavalcarono assieme per un breve tratto. Il re proseguì per Teano dove passò la notte. Il telegramma che avvertiva dell’incontro fu spedito dall’ufficio telegrafico di Teano’.

 E’ passato quasi un mese dalla battaglia del Volturno. L’epopea dei Mille sta davvero per finire. Garibaldi non marcerà su Roma. I piemontesi stanno discendendo l’Italia attraverso le Marche e gli Abruzzi: vogliono ‘godere del frutto della conquista, ma cacciarne i conquistatori’, annota, con amarezza, il generale nei suoi diari. Garibaldi è stanco, sogna la sua piccola isola in Sardegna. Ha deciso: rinuncia a Roma e, senza alcuna condizione, donerà un regno a Vittorio Emanuele. Per questo, il 25 di ottobre del 1860, attraversa su un ponte di barche il fiume Volturno e va incontro all’esercito piemontese.

Parteggio per Vairano Patenora perché Antonio Ruizzo, il barista, mi ha portato in campagna. Fra olivi e papaveri. E, qui, al Palazzone, vecchia masseria sotto la collina del Pizzo della Guardia, incontro Maria Zompa, 66 anni, gioiosa maestra di paese. Ci voleva un po’ di fortuna alla fine di questo lungo viaggio sulle tracce dei Mille: ‘Da piccola ho giocato con il poncho di Garibaldi – mi sorprende Maria – La mia famiglia lo aveva sempre conservato. Fu il mio bisnonno, Andrea Zompa, ad ospitare Garibaldi la notte prima dell’incontro con il re. Ha dormito in questa stanza. Qui ha mangiato polenta. Il generale aveva mandato una vedetta in montagna: voleva essere avvertito non appena il re si fosse avvicinato alla casa. Al mattino donò il poncho al mio bisnonno e se andò a incontrare il re. Si videro davanti alla taverna lungo la strada. C’era un boschetto di pioppi. Il mio bisnonno era lì’. Mi piace, Maria. Bevo il suo caffé mentre lei cerca, vanamente, antiche carte. Indosso perfino una camicia rossa in suo onore. A Teano, nel pomeriggio, si arrabbieranno della versione di Maria e mi racconteranno di altri quattro testimoni che, in anni lontani, hanno giurato di aver assistito all’incontro a Borgonuovo, a un passo dal ponte di san Nicola, appena fuori Teano. Fioriscono i monumenti fra Vairano e Teano: ne ho contati almeno quattro e un’infinità di lapidi. E una targa di marmo davanti alla antica taverna della Catena promette (promessa da tempo disattesa) di costruirne uno più degno a Vairano. Ho visto quadri contrapposti raffigurare l’incontro in luoghi diversi. Ma poi ho faticato a trovare qualcuno che sapesse dove erano le chiavi del minuscolo museo risorgimentale di Teano. E la taverna della Catena (esiste ancora) è l’unico edificio decrepito e abbandonato fra le vetrine di jeans e magliette di Vairano Patenora Scalo. Una targa del 1967 ricorda, come a prenderci in giro, che è un edificio storico.

La mattina del 26 ottobre del 1860 nuvole di polvere e strilli di trombe accompagnavano il re per quelle strade di campagna. Dicono che la cavalla di Garibaldi, innervosita dal chiasso, scartò di lato. Il re salutò il guerrigliero: ‘Come state?’. ‘Bene, maestà, e lei?’. ‘Benone!’. Tutto qui. O quasi. L’Unità d’Italia si fece fra due personaggi che niente avevano da spartire. Vittorio Emanuele proseguì per Teano. Il conte Gennaro Caracciolo di Santagapito non vide niente di male nell’aprirgli le porte del suo palazzo. Gattopardi di Campania: fino a poche ore prima erano stati suoi ospiti i generali borbonici.

Garibaldi stava già cavalcando nella sua solitudine. Si fermò davanti a un casolare. Sedette su un panca. La sua cavalla ora era più tranquilla. I contadini poggiarono pane e cacio su un barile. Il generale bevve un sorso d’acqua e la sputò: ‘Nel pozzo deve esserci una bestia morta da tempo’. Sì, Vairano Patenora o Teano che fosse, qui era davvero finita la straordinaria avventura dei Mille.