Andrea Semplici

Ho sempre appresso un semino di baobab

Sapete di quelle strade dell’Africa in cui si respira una polvere strana? Passano le donne immense con i sederi dondolanti avvolti in un pagne che scintilla a ogni colpo di anca. Passano gli uomini che camminano senza piegare le gambe e non si sa mai dove vanno. L’Africa, si sa, cammina sempre. Ma non è che la terra scotti sotto i piedi, né che ci sia fretta. Anzi, le cose si fanno con calma e non c’è nessun posto dove andare sul serio. Ma, si sa, tutto accade solo se si cammina. I calcagni dell’Africa conoscono ogni segreto della terra e sanno come poggiarsi sulla polvere e sul fango, sanno calibrare le forze e come fare leva per spingere il passo dietro alle gambe senza fili.
Alla fine passò il ragazzo con gli occhi di lucciola e il sorriso che sa di polenta dolce. Io ero nuvola ed ero uscito perché domani il mio tempo sarebbe finito: le nuvole, anche questo si sa, si fermano ben poco. Il vento, un sedentario checchè se ne pensi, le spinge via perché il loro destino è di correre sempre. Io, una volta tanto, avrei voluto stare. Basta con questo andirivieni per i cieli: qui le cose erano belle, perché andarsene? Ma il vento non ne volle sapere, dovevo essere pronta al viaggio domattina. Per questo, come piccolo cirro senza nome, ero uscita a respirare quanto più polvere che potevo. Guardavo le donne passare, guardavo gli uomini che sembravano fatti di legno d’ebano pieni di fibre muscolose. Non mi accorsi del ragazzo dagli occhi di lucciola. Fu lui, nel suo apri-chiudi di luce, a sorridere, senza una parola, a me, nuvola incuriosita. Si avvicinò, accostò la sua bicicletta alla porticina del mio albergo, mise un piede per terra e rimase in equilibrio. Fece un gesto con la mano: la trasformò in una coppa e mi chiese, con gli occhi, di fare lo stesso. Mi lasciò scivolare nel palmo un piccolo seme di color rosso bruno. Aveva una forma di cuore. Come faceva a sapere che lo avevo sempre cercato? Alzai lo sguardo e il ragazzo dagli occhi di lucciola non c’era più. Si era confuso nella polvere, era scomparso fra le mobylette che ancora giravano in tondo per la città dal nome come un gioco di lingue. I sederi delle notte lo avvolsero e non lo vidi più. Lasciò dietro a sé, per un attimo, una scia di riflessi luccicanti. Misi il semino in una tasca e quasi lo sentii fremere. Non mi chiesi niente, non avevo tempo. Dovevo fare le valige. La partenza era vicina.
Lasciai il semino nella tasca della giacca invece di riporlo in una scatolina. Non me ne volere, lucciola. E’ che ero così triste per la partenza e così eccitato per il viaggio.

Così nuvola si dimenticò del semino del ragazzo-lucciola. E lui, il semino, si fece un cantuccio in quella tasca in cui Nuvola infilava pezzi di pane, terriccio, alghe di strani mari, noccioli di pesca. Con loro il semino si trovò talmente a suo agio che, a un certo punto, decise di germogliare. Due foglioline per cominciare, poi un rametto, infine un secondo rametto. La nuova famigliola non sapeva di essere baobab, ma, per istinto, se ne andò in cerca di luce e si arrampicò verso i bordi della tasca. Nuvola sentiva grattarsi all’altezza della pancia, ma non ci fece caso più di tanto: sai quante volte il vento aveva fatto pizzicorino la sotto. Una grattatina e tutto passava.
Passarono le settimane. Finalmente un vento dei tropici afferrò il viaggiatore-nuvola e gli fece capire che era tempo di tornare là, verso quella città che amava tanto. Finalmente una bella notizia. Nuvola voleva anche ritrovare, fra mille, il ragazzo dagli occhi di lucciola. Fu così che, proprio mentre aveva finito di sorpassare, con un solo balzo, il deserto, si ricordò del dono di quell’amico silenzioso. Dove aveva messo il semino? Lo cercò in ogni tasca e tanto rigirò il suo giubbotto che alla fine si trovò a volare capovolto. E il semino (che non era più tale: ma sembrava davvero un piccolo albero già panciutello) si trovò sospeso nel vuoto. Provò inutilmente ad aggrapparsi al bordo della tasca, volò come un aquilone senza pilota e solo quel buon cuore del vento riuscì a controllarne la caduta. Finì, sollevando uno spiritello di polvere, in una crepa del terreno. Fu così fortunato che arrivò a piedi in giù e si conficcò in una bolla di fango che sapeva di acqua. Il semino si riprese subito e, ancora stordito, dal volo mosse le sue radici, che avrebbero voluto essere chioma, in quella poltiglia così dolce e così umida. Bevve un mucchio di quell’acqua così saporita ed aspettò. Sapeva che ora si trattava solo di aspettare.

Nuvola non smise di cercare il semino. Decise di restare là e si camuffò da uomo. Passarono più
stagioni delle piogge: talmente tante che Nuvola dimenticò perché era lì. Pensò di essere sempre stato uomo e perciò cominciò a invecchiare. Non aveva trovato il ragazzo. Il semino chissà dov’era finito. Nessuno al mondo seppe aiutarlo: il ragazzo non aveva nome e il nome della pianta che avrebbe dovuto nascere dal seme non lo conosceva nessuno. Solo alberi con le spine c’erano in quella terra.

Nuvola non poteva più volare, ma questa non era una buona ragione per smettere di muoversi. Quindi si mise a camminare. Camminava di buon passo. Il paesaggio era bellissimo: verde, verdissimo di cespugli, perfino gli alberi con le spine erano più dolci, meno taglienti. Ti sfioravano la pelle ed era una carezza, non un graffio.
La strada portava a una casa rotonda. Un vecchio lavorava nell’orto canticchiando. Nuvola lasciò andare gli occhi su un albero lì vicino, bellissimo e sconosciuto. Un albero con la pancia, un albero immenso e strano. La pelle dell’albero era stata sicuramente presa in prestito da un vecchio elefante: piena di rughe, strappi, cicatrici, ruvidezze. Ma ti veniva voglia di carezzarla. Bastava una sguardo e capivi che sottoterra era un tumulto di radici che avrebbero voluto vedere la luce e che invece erano maremoto sotterraneo. Nuvola rimase a bocca aperta. Salutò il vecchio. Che si tirò su la tesa del cappello di paglia e ricambiò il saluto. I suoi occhi ebbero uno scintillio felice. Nuvola aprì la bocca ancora di più, si portò una mano alla testa: lo riconobbe, seppe chi era, lo aveva visto una volta sola, ma era come se lo avesse conosciuto da sempre. Era il ragazzo-lucciola, quell’accendersi degli occhi, per quanto mondo potesse aver visto, lo aveva incrociato una volta sola in mezzo alla polvere in una città dal nome che, sulle labbra, diventa un serpente attorcigliato. Ma le sorprese mica erano finite: un fremito percorse la terra, qualcosa spuntò, un buffo rametto che, come se fosse appena nato, già credeva di essere grande. Il rametto sfiorò Nuvola, facendogli un pizzicorino sotto i piedi.

No, non era possibile. Era lo stesso pizzicorino di tanto tempo prima. Quell’alberone immenso era il semino smarrito che non si era smarrito. Aveva trovato la sua goccia d’acqua, la sua terra ideale, il suo concime perfetto ed era cresciuto. Lo avevano chiamato baobab. Perché era sembrato un bel nome: aveva un suono che era come dare la mano a qualcuno, come il picchiettare di un uccello sul tronco, come un fabbro che dà un ritmo al suo martello sull’incudine. Nuvola sfiorò la pelle del baobab sillabando il suo nome, si grattò il pizzicorino e poi si sedette appoggiando la spalle al tronco. Il rametto appena spuntato, con un salto, si tuffò nella tasca di nuvola con dietro il suo semino figlio di Baobab. Mai serra calda era stata migliore di quella tasca piena di pezzetti di pane, noci di frutta e poltiglia di caramelle. Lì, in quella tasca, si passano bene le prime settimane di vita.

Nuvola ora abita quella casa, che è ospitale. Qui, alla casa dipinta di rosso e di nero, gli alberi dalla pancia rugosa sono in fila come a una parata. Fanno un viale bellissimo. Nuvola li ha curati come figli, li ha innaffiati, custoditi, ci ha parlato assieme con parole gentili. E loro, figli di figli di figli di figli, sono cresciuti in bellezza. Una famiglia di baobab: non c’è niente di più bello al mondo!
Il vecchio-ragazzo dagli occhi di lucciola ha dato una mano: sta lì, dormicchia sotto la terra del primo albero, quello nato dal suo semino. Merito suo se è cresciuto grande e grosso e anche oggi che ha trecento anni se la ride di gusto per ogni sciocchezza e riesce a fare pizzicorino a ogni ragazza che passa di lì. Ora Nuvola cammina con un bastone, ma è proprio contento. Sapete: nessuno è mai riuscito ad abbracciare un baobab grande da solo. C’è sempre bisogno di amici per riuscire a fare un cerchio attorno al suo tronco. Almeno cinque persone. Ma per il baobab capostipite le persone devono essere almeno dodici. I libri dicono che è il baobab più panciuto del mondo. Hanno ragione,ma non sanno che lui sa riconoscere chi lo ha tenuto al caldo di una tasca quando era un pulcino di albero. Nuvola sa abbracciarlo con le sue sole braccia, sa accarezzarlo con le sue mani. Semino-diventato-nonno tira il fiato, butta in dentro la pancia e lascia che Nuvola lo stringa forte. Anzi, con le sue buffe foglie si piega a pizzicargli la testa. Ogni sera. Ogni sera quando il sole decide che è tempo di intrufolarsi fra i suoi rami per colorare l’Africa della luce più bella del mondo.