L’arciduca di Gloucester, erede al trono inglese, non infranse il cerimoniale e scivolò lentamente davanti al trono imperiale. Sfiorò con gli occhi lo sguardo di quell’uomo piccolo e minuto, non ancora quarantenne, che appariva impassibile, quasi accoccolato su una sedia troppo grande per lui. L’arciduca abbassò la testa con un movimento meccanico e poi sfilò in fretta davanti alla folta corte di dignitari. Si era inchinato di malavoglia davanti all’Imperatore, davanti al Re dei Re, al Negus Neghesti dell’Etiopia. E non avrebbe mai saputo che quel gesto di riverenza era destinato a scatenare, a migliaia di chilometri di distanza, un sogno di rivolta e a innescare la miccia rivoluzionaria di un travolgente e contraddittorio movimento, puzzle inquieto di fede mistica e cultura ribelle. Soprattutto non poteva immaginare che, quell’inchino regale, fu, in realtà, il primo amplificatore di una musica destinata a diventare il soundsystem delle rivolte nere dei ghetti urbani.
Quando accadeva tutto questo era il 2 novembre del 1930: ad Addis Abeba, nella chiesa di San Giorgio, Hailé Selassiè, ‘la Forza della Trinità’, ultimo negus d’Etiopia, era finalmente tranquillo. Davanti a lui, nuovo re africano, erano sfilati gli inviati dei potenti della Terra. Sulla sua testa era stata finalmente posta la corona che gli affidava le sorti del più antico regno dell’Africa: nelle sue mani stringeva il destino del primo stato cristiano della storia dell’umanità. Sorrise leggermente: lui era l’erede-usurpatore di una storia millenaria. Aveva vinto la sua battaglia, condotta in maniera spietata e astuta per quasi venti anni, per la successione a Menelik II°, il vincitore di Adua: il trono, alla fine, era suo, come sue diventarono le terre dell’altopiano più vasto dell’Africa. Era sovrano per diritto divino: lui, Hailé Selassié, era il duecentoventicinquesimo successore di Menelik I°. Lui, ras figlio di ras, si era proclamato discendente diretto del ‘figlio dell’uomo saggio’, nato dall’amore rubato, a Gerusalemme, da re Salomone alla regina di Saba. Il Re dei Re, quest’uomo dall’aria così dimessa, aveva una passione invincibile per il potere: non era un semplice monarca, era un imperatore-Dio, una divinità sulla Terra. Era il kings of kings, Lord of Lord, conquering Lion of the Tribe of Judah. L’arciduca di Gloucester dormì pesantemente quella notte: non vedeva l’ora di tornare nella sua Gran Bretagna. Ma il tam-tam della reuters aveva già cominciato a battere la notizia di quell’incoronazione e qualcuno, al di là dell’Atlantico, lesse con stupore ed emozione quei dispacci.
Strano destino: dall’altra parte del mondo, in quegli anni trenta, covava una rivolta antica. Lo schiavismo era finito, ma non certo la schiavitù e la miseria disperata della gente nera. Nelle periferie delle città statunitensi, scosse dalla crisi economica, e nelle isole caraibiche, soggiogate dai latifondisti britannici, la foto di quell’arciduca chino davanti a un re nero, in ginocchio di fronte a un imperatore-Dio, accese orgogli e passioni. Le agenzie che avevano trasmesso le immagini di quel lontano evento feudale divennero l’inconsapevole strumento di una ribellione afro-americana. In Giamaica, un professore di lettere, studioso di storia dello schiavismo, scese in strada come un folle (e gli inglesi lo trattarono come tale rinchiudendolo più volte in manicomio). Leonard Percival Howell incitò i neri dell’isola a non pagare le tasse, a mandare a quel paese il re d’Inghilterra, signore coloniale, e a diventare sudditi dell’imperatore etiopico. In fondo, non era quello il sogno-utopia di Marcus Garvey, il profeta, anche lui giamaicano, del ritorno di un messia nero, il predicatore della libertà del popolo africano delle Americhe? Non era stato Garvey a riscrivere su Blackman, le parole di un salmo celebre: ‘Vengano i grandi dall’Egitto, l’Etiopia innalza le mani verso Dio’? Nemmeno Hailé Selassié, autocrate feudale e modernissimo allo stesso tempo, avrebbe immaginato tanto: divenne Dio per i movimenti anticoloniali delle Americhe nere, per i figli di un sincretismo estremo fra cristianesimo e culti afro-americani. Ai ribelli giamaicani piacque perfino il nome di quell’imperatore: prima di essere incoronato, era conosciuto come il ras Tafari Makonnen. Loro, neri e liberi, divennero, per questo, i rastafarians. Quasi trent’anni più tardi, Hailé Selassié, fu riconoscente di quella fede senza limiti: donò ai neri delle Americhe, duecento ettari di terreni nel profondo della Rift Valley, nel Sud dell’Etiopia. Una prima colonia per il ritorno dei neri in Africa.
Lo scenario, adesso, cambia di colpo. E’ passato mezzo secolo dall’incoronazione di quell’imperatore. La sua divinità non ha impedito che diventasse un autocrate, un despota, un vecchio decrepito aggrappato a quel trono che,ogni giorno, diventava così immenso mentre lui si rattrappiva nella sua pelle di pergamena. Fu un misero ufficiale, un servo, il figlio di donna di strada a cacciarlo, a strapparlo da quella sedia regale troppo alta, a soffocarlo con un cuscino, a seppellirlo sotto la sua latrina personale. Dio può morire, ma il suo credo no. Incroci del destino: Robert Nesta Marley, anche lui figlio dei ghetti di Kingston, bastardo di un capitano inglese e di Cedella, una nera bellissima, era già, da anni, il menestrello più amato della musica reggae, il Messia atteso, il profeta di quella divinità nera. Follie delle religioni: sullo stesso altare stavano i tabernacoli del tiranno feudale e del bardo che predicava la libertà di Madre Africa, erano illuminati dalle stesse candele il cantore della scomparsa di divieto e il monarca che aveva dominato, con un pugno insanguinato, il più vasto degli altopiani africani.
A cosa pensavi, Bob, di fronte a quella folla che nessuno riusciva a trattenere? Al cancro che ti stava divorando (lo sapevi già quando salisti su quel palco?) o a quell’Africa di cui eri la colonna sonora? Lo sapevi che in quella città, Harare,dove stavi per tendere le corde della tua chitarra già viveva l’uomo, quell’ufficiale vanitoso e feroce, che aveva ucciso il tuo Dio? Aveva importanza? La notte del 17 aprile del 1980, un anno ancora di vita, tu gridasti: Africa must be united e due milioni di africani videro in te la fiamma del loro futuro. Le radio delle savane trasmettevano il rullo dei tuoi tamburi e le lacerazioni della tua chitarra. In ogni villaggio africano cassette polverose e gracchianti passavano la tua musica di registratore e registratore. E tu ora eri sul palcoscenico del Rufuru National Stadium ad Harare, davanti a due milioni di africani che avevano avuto l’orgoglio feroce di cancellare la Rhodesia dalla carta geografica del mondo. Fu lì, di fronte a quella gente che non riuscivi a vedere in faccia, che decidesti che era ora di farla finita. Era tempo di tornare a casa. Era tempo di non sapere più nulla. Babylon, il perfido regno della corruzione, stava infettando il tuo universo. Il Re dei Re era un assassino, i governanti dello Zimbabwe lo sarebbe diventati. La musica non salva i popoli dalla crudeltà dei potenti. Si perde la testa quando si sale sui troni del mondo. Meglio starne alla larga, meglio svanire. La musica avrebbe viaggiato da sola: vangelo per i neri, dai ghetti di Birminghan alla radio del tassista che ti fa viaggiare per le strade di Dakar, dagli altoparlanti di un supermercato di Parigi ai bar scassati di Kinshasa. Saranno le tue nenie graffiate a tenere in vita il soffio di un sogno smarrito.
Meskel Square, la piazza della Croce, è il posto giusto per essere spaventati da Addis Abeba, la capitale dell’Etiopia: non è una piazza, è non-luogo, un campo di battaglia. Ci vogliono minuti e minuti (dribblando un traffico che qui si incrocia come in un cruciverba) per attraversarla. E’ grande come sei campi di calcio: era la piazza delle adunate ai tempi della tirannia di Hailè Mariam Menghistu, l’assassino di Hailé Selassié.
Bob, smettila di vaneggiare, non essere inquieto: qui bisogna stare calmi se vogliamo tornare in albergo. Il corpo del negus ha trovato pace, ricordi? Un bel funerale. Con la tua musica e tua moglie in prima fila. Bob si siede sui gradoni dove i notabili di seconda fila assistevano alle parete del regime. Si distende, cerca di trovare il sonno. ‘Io in qualche modo sono eterno. L’unicità di ogni uomo e di ogni donna è il dono di Jah. Noi lottiamo per farne qualcosa: questo è quello che, a nostra volta, possiamo donare a Jah’. Dio è stato riconoscente: ti ha consentito di scomparire. A pochi altri è stato concesso questo privilegio. Si vede che lo hai toccato nel cuore. ‘Ne ero sicuro, sai. Un giorno Jah avrebbe portato me e i miei fratelli via da quell’isola e ci avrebbe riuniti, noi ex-schiavi, sotto il cielo della Grande Madre Africa’. Ci sarebbe stata la tua musica senza questa terra? ‘Non ho la pelle nera, sono un creolo e mica mi piace questa storia. Mio padre non l’ho mai visto. La musica ci sarebbe stata ugualmente, ma qui, in Africa, diventa altro: è una ragione di vita, forse l’unica. E’ il sorriso del giorno, il movimento di ogni muscolo, la molla che ti fa alzare anche questa mattina’. Ti racconto dei capelli, Bob. Così capisci. Tu indossi una criniera, resa morbida da grasso e creme, ma non sempre è stato così. Noi volevamo incutere timore. Devo dire: viva la globalizzazione, viva quelle foto che i giornali misero in prima pagina per aizzare i bianche e che, invece, fecero fremere i nostri fratelli. Non ti appisolare, Bob, ascolta. Nei primi anni ’50, furono altri popoli a ribellarsi agli inglesi, le genti di tuo padre. Si arruolavano, stracciati com’erano, in un Esercito per la Terra e la Libertà, un’armata di teppisti e pezzenti che, più a Sud di qui, in Kenya, volevano solo riprendersi i territori dei loro antenati. Si chiamavano mau-mau e tra di loro fecero un patto: non si sarebbero tagliati i capelli fino a quando non sarebbero stati liberi. Loro non volevano assomigliare ai bianchi. Le loro chiome crebbero come la loro ribellione: erano capigliature oscene, lunghe, arruffate, contorte. I rasta di Harlem e della Giamaica guardarono con occhi avidi le fotografie che li ritraevano con occhi spiritati, era il segno che loro non si sarebbero arresi mai: anche i fratelli vollero diventare ‘combattenti per la libertà’. E lasciarono volare i loro scalpi afro, intrecciarono i capelli in lock aggrovigliati, in ciocche che scendevano fino ai piedi. Dovevamo incutere timore. Fu così che diventammo gli uomini e le donne con i dreadlock, le ‘ciocche terribili’. Non dormire, Bob. Dobbiamo andare. Senti com’è bello quello che hai scritto: ‘Vecchi pirati,sì, mi rapirono. Mi vendettero alle navi mercantili.Per quanto ancora uccideremo i nostri profeti, mentre assistiamo in disparte’. Vieni, Bob, il traffico di Meskel Square si è acquietato, come le acque del Giordano.
Due uomini che cercano di attraversare la spianata di questa piazza troppo grande. Quello più magro barcolla, ha appena compiuto sessanta anni, da più di venti si nasconde. Più si nasconde e più è inseguito dalle tracce che si è lasciato alle spalle. Non può afferrare il taxi collettivo per andare al mercato del paese vicino (uno dei piaceri che si è conservato) che la musica lo avvolge. Non vale tentare di dormire: i suoi compagni di viaggio lo scuotono, si strusciano, cercano di danzare nello spazio di una peugeot stralunata. A volte ti sorprendi a cantare le tue strofe e il vicino che ti guarda come uno che storpia un salmo del Corano.
In mezzo alla piazza, l’uomo più grosso, un gigante, sostiene Bob, quasi lo protegge: non ha questi problemi con il passato. Ha le cuffiette alle orecchie e, ci posso giurare, sta ascoltando la tua musica. Quella che non ti lascia in pace. Ecco, ora avete attraversato la piazza, siete in salvo. Alle vostre spalle un automobilista vi guarda con disprezzo. I ragazzi, invece, hanno tirato fuori una radio colossale e cominciano a dimenarsi con i loro cappelli di rafia a strisce gialle, rosse e verdi. Che ne sanno loro dei rasta? Non degnano di uno sguardo l’ombra di quei due uomini che scompaiono verso il ventre di Addis Abeba.
La storia dei rasta è leggenda da Bibbia desacralizzata. E’ la ricerca di una follia, la nostalgia immotivata di una terra, un viaggio senza partenze. Davvero lasceresti un’isola di sole e donne bianche che ti riempiono di regali per una manciata di sesso? Mai stato a Bloody Bay? Mai passeggiato sulla spiaggia di Negril? Ti sei mai infilato con sprezzo del pericolo al Go Go, caverna nera dove ti sventolano sul viso i più bei culi di Giamaica? Davvero lasceresti l’isola di sesso, droga e reggae? E di spiagge, sole smagliante e mar color caribe? Che vuoi di più? Lui, Bob, c’è riuscito lasciando alle spalle una corte di donne piangenti che, un secondo dopo il tuo funerale si accapigliarono per un frammento della tua casa da rivendere ai turisti.
I rasta mica sono normali. Ci hanno provato davvero ad andar via da Giamaica. Negli anni ’60 delegazioni di pellegrini dalle treccine impazzite vagarono per mezza Africa alla ricerca di una terra che li ospitasse. Alla fine approdarono davvero alla corte del Re dei Re. Era quello il Dio che stavano venerando? Quell’uomo così piccolo e nervoso, dagli occhi sfuggenti. Hailé Selassié dovette sussultare quando li incontrò: pensò che erano tutti molto più alti di lui, che avevano capelli come piovre, che parlavano con voce troppo tuonante. Si infastidì per la loro abitudine di fumarsi una canna dopo l’altra. Ma rimase colpito dall’adorazione, priva di dubbi, di quegli uomini grandi e irsuti come guerrieri preistorici: confermò il dono di quelle terre lontane, perse nella Rift Valley. Quei rasta presero una corriera e percorsero strade scassate fino a Shashamane, fino al villaggio, dal nome come uno scioglilingua, che Hailé Sellassié aveva regalato alla gente nera delle Americhe. Quella notte dormirono nella prateria. Fumarono fino a stordirsi. E guardarono l’alba prima di riaddormentarsi. Nel sonno decisero che quel luogo poteva essere una buona terra.
Erano matti: non ho mai visto una città così brutta come Shashamane. Un crocicchio di strade che portano al Sud dell’Etiopia, un crocevia ingorgato delle rotte verso il Kenya. Città di passaggio. Di prostitute e camionisti. Erano matti: ma qui stanno ancora i rasta d’Etiopia, ultima etnia del continente. In qualche casetta alla periferia di Shashamane, quasi invisibili a chi non li cerchi, vivono i rasta. Altissimi, dinoccolati, storpiatori coscienti di un inglese inventato come se fosse una nuova lingua. Vi passai alcuni anni fa: mi accolse Daniel (‘Hey, man…’, e giù una botta sulle spalle, tale da farmi rintronare) e non si lasciò sfuggire una sola parola di troppo. Ero il peggiore degli scocciatori, un giornalista. Ma ero ben introdotto, mi aveva raccomandato un dentista bianco: ehy, Daniel, allora ti andava bene anche un bianco per sistemarti quei dentacci più storti dei tuoi capelli. Rimasi nella comunità per qualche giorno: a guardare bambini che facevano i compiti di matematica e rasta che fumavano ganja in santa pace. Mi piacque quella tranquillità. Erano rimasti in pochi: solo sette famiglie, sopravvissute ad anni durissimi. Daniel, in un raro momento di parole, mi disse: ‘All’inizio qui arrivarono quattrocento famiglie dalla Giamaica e dalle Americhe. Non avemmo vita facile. Ma fino a quando l’imperatore vigilava su di noi, riuscivamo a vivere’. Per la verità i cronisti di quella singolare immigrazione hanno sempre parlato di una cinquantina di famiglie arrivate fin qui da oltre oceano. Non di più. Ma perché non credere a Daniel? Ed è vero che quando la rivoluzione ‘rossa’ di Menghistu spazzò via il Re dei Re, i contadini di Shashamane si impossessarono, forconi alla mano, delle terre concesse ai rasta. Molti di loro, allora, se ne andarono. I contadini etiopici mica amano i rasta. Per loro sono ladri di terra.
Daniel rimase: quando anche quel figlio di una serva fu detronizzato, riuscì a rientrare in possesso di una quarantina di ettari. Quella era pur sempre la Terra Promessa. Rasta ostinati: crollato il terrore dei militari, finite le persecuzioni, il mito rasta è rinato in Etiopia. Bob era scomparso e la sua leggenda approdava nel paese in cui diceva, senza averlo mai visto (ma allora come facevi a possedere l’anello del Negus, Bob?), di voler vivere. Nel 2000, ai funerali ufficiali di Hailé Selassié (otto anni dopo il ritrovamento delle ossa), i rasta riapparvero nelle prime file delle cerimonie. E vibrò, di nuovo, la tua musica, oramai leggenda di ogni gang di giovani africani. Curioso vedere i capi di stato e i decrepiti superstiti della corte imperiale sfiorati da quegli accordi che sognavano rivoluzioni. Guardati attorno, Bob, non chinare la testa: i ragazzi di Addis Abeba ora
camminano ondeggiando le loro lunghe treccine, ascoltano, intontiti, l’ossessione dei tamburi reggae. Hanno cappelli di rafia e lana, sgargianti nei colori della bandiera etiopica e indossano magliette con l’immagine sorniona del Negus. Ne sanno qualcosa, loro, dell’Imperatore-Dio? Ne sanno qualcosa del menestrello del reggae nato al sole dei tropici e amante di un gelido sovrano degli altopiani africani? Cosa sanno i giovani di Addis Abeba, cresciuti negli anni di una guerra fratricida con l’Eritrea, delle storie di ‘pace e amore’ dei rasta e della redenzione nera? Nemmeno Daniel, che già aveva i suoi anni, mi dette una risposta rispose e la mia domanda rimase sospesa nella serenità di Shashamane.
Feci fermare di colpo la macchina. L’autista si innervosì, un bus ci sfiorò, un uomo in bicicletta sbandò, cominciò il concerto dei clacson. Scesi dal taxi come una furia. Il cuore mi batteva come se fosse stato colpito da una scarica di adrenalina. Come dicevi? ‘Io sono il messaggero di Dio’. E noi a comprare i tuoi dischi, a renderti ricco, a sfamare le moltitudini dei figli che disseminavi per il mondo. Sei tu? Sei a casa, Messia? Sei tu? Daniel ti sorregge come una cucciolo ferito, la sua mano è sotto il tuo braccio e tu lasci fare. Ascolto il tuo respiro: è come un vento leggero e arrochito. Mi commuovi: ha ritmo perfino il tuo respiro. Ti eri nascosto proprio nel primo posto dove avrebbero dovuto cercarti. Straordinario: sotto gli occhi di tutti per non essere visto. Che sguardi strabici che abbiamo. Non sei riuscito a scrollarti di dosso il passato, ma hai un’aria stanca e bella, Bob. Sono certo, hai suonato a lungo per te e per i bambini di Shashamane e non hai conservato nemmeno un appunto di questi concerti. Che gioia deve essere stato cantare per i bambini. Solo per i bambini. Daniel mi vede, ha un lampo, un movimento. E’ combattuto, vorrebbe fingere di non riconoscermi, ma sa che non può, che non ci riuscirebbe. E felice di vedermi. Io non mi muovo, le mani in tasca, un sorriso che vorrebbe essere incerto. Daniel rallenta, sorride anche lui. Più con gli occhi che con le labbra. So che mi sta pregando: non svelare questo segreto, ti prego fratello. Nocca contro nocca, pugno contro pugno. Non lo fare. Per lui, per lui. Mi passi a fianco con lo sguardo di chi sa di aver sempre avuto ragione. Sei invecchiato, Daniel. Chissà perché: sono più interessato a te che a Bob: ‘Hey, man…you see, I was right, the King is back’. Questa volta mi sono scampato la botta sulle spalle.